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di avergli dato licenza di venire; ma non perciò gli aveva promesso di farlo duca di Milano. Che poi gran parte di questi gentiluomini erano stati a casa del nostro ambasciatore, ed avevano fatto con lui lo stesso ufficio che avevano fatto con Cesare; e gli avevano accennato che dovesse esortare la Signoria nostra a procurare che fosse fatto duca di Milano Massimiliano Sforza, che, quando ottenesse questa grazia, lascieria Cremona e la Geradada alla Signoria. L'ambasciatore aveva risposto, che loro avevano preso un mal consiglio, e che procuravano contro quello che dicevano. Dicevano di voler pace, e colla loro opinione avrebbero cominciato a far guerra; volendo introdurre Massimiliano ch'era fuori di stato (1), e scacciare Francesco che n'era come in possesso: che riuscirebbe loro di maggior benefizio, se procurassero per il duca Francesco appresso l'imperatore; il che saria dimanda più onesta, più giusta, più facile e più grata a tutti i principi d'Italia. E con questo aveva licenziato quei gentiluomini; lo che comunicato al pontefice, n'era stato lodato assai. Che il re d'Inghilterra aveva fatto mettere in servitù il cardinale Eboracense (2), e l'aveva privato del governo e spogliato di tutta la facoltà così mobile come stabile. La mobile era stimata valere quarantamila lire inglesi, che sono delle nostre di grossi ventimila, cioè duecentomila ducati; e in queste si comprendevano trentamila lire inglesi in contanti, cioè quindicimila delle nostre, che sono centocinquantamila ducati. La stabile era un arcivescovato, che gli rendeva una

(1) Massimiliano Sforza era in Francia in onorevole prigionia, e non aveva ancora deposto la speranza di ricuperare la libertà e la ducale corona; ma vi morì l'anno dopo.

(2) Tommaso Wolsey, personaggio notissimo. Vedi intorno ad esso la biografia contemporanea del Cavendish, e quelle posteriori del Fiddes, del Gall e dell'Howard. Questo cardinale volse per molti anni a sua posta ambo le chiavi del cuore d'Arrigo VIII; ma l'ambizione e la soverchia sete delle ricchezze gli tirarono addosso nemici terribili, e finalmente anche l'ira e il castigo del Re; alle passioni del quale aveva sacrificata la propria coscienza.

grossissima entrata. Che il pontefice aveva mandato a pregare esso oratore, che scrivesse ai Rettori di Verona per il passo sicuro delle lettere dell' imperatore a Ferdinando suo fratello: che gli aveva risposto, lui non poter scrivere alli rettori senza ordine del Senato; ma che scriveria di questa domanda, la quale senza alcuna difficoltà saria da quello esaudita.

Da Pera di Costantinopoli, del mese di settembre, scrive messer Piero Zeno, che non vi era ancora certezza se il Gran Signore ritornerebbe ad invernare a casa, ovvero se resterebbe in Ungaria.

Di Puglia, il provveditore Vitturi scrive: che le nostre genti e le galere pativano assai di vettovaglie e di denari; e che se non si provvedesse all' una e all' altra cosa, era impossibile di più intrattenersi. Lette le lettere, fu deliberato che venti delle nostre galere disarmassero; cioè dieci delle armate in Venezia, quattro in Dalmazia, quattro in Candia, una del Zante ed una di Cefalonia; e fu comandato che tale relazione restasse secretissima. Fu scritto al Capitano generale da Mar, che assicurasse le galere da Barutti e d'Alessandria per il viaggio loro, divulgandosi la presa delle sei galere genovesi dal Corsaro sopradetto. Fu scritto al provveditore Nani, che, avendo le genti spagnuole del milanese passato Adda, e le alemanne del bresciano essendo in procinto di passare il Po (per cui accennavano di volersi unire ); e avendo Paolo Luciasco (1) scorseggiato per alcune valli del bergamasco, nelle quali, per non aver trovato da rubare, temevasi che si spingesse verso la montagna ( ch' era piena di vettovaglia, per la fuga delle genti della maggior parte di quelle bande); dovesse, col parere del Capitano Generale, duca d'Urbino,

(1) Paolo Luzzasco, uomo valoroso, ma di poca fede, che sei mesi prima non avendo potuto allogarsi col re di Francia, era passato dagli stipendi di Clemente VII a quelli dell' Imperatore.

Vol. VII.

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mandare una banda delle nostre genti, per occorrere al male che poteva nascere.

Fu scritto a Bologna all' orator nostro, che non vi essendo nuova in diverse lettere del successo della pace ( la quale pareva per le precedenti che dovesse presto seguire) si stava perciò in qualche sospensione d'animo; onde dovesse intenderne la cagione e scriverne subito al Senato. Poi, che dovesse assicurare il pontefice e l'imperatore del transito delle sue lettere a Ferdinando per Verona, dandogli notizia del passare pek veronese in Alemagna, in questi giorni, di due capi alemanni.

Fu deliberato di dare ad imprestito al duca Francesco di Milano ducati cinquemila, per poter pagare le sue genti; ma che l'oratore se ne facesse far ricevuta. Furono infine messe alcune parti dei particolari; tra le quali di beneficare uno che attende all'ufficio dei camerlenghi; ma non fu presa, per volerci gran numero di ballotte.

Alli ventiquattro del mese di novembre, nel Senato furono lette lettere di Ferrara, che avvisavano da Bologna che l'imperatore aveva fatto un ottimo officio per nome del duca colla Santità del pontefice nella materia di Modena e di Reggio, nella quale esso pontefice era stato trovato molto duro; ed era stato divulgato da alcuni, che il duca faria bene se porgesse qualche partito al papa, perchè, chi sa che non l'accettasse. Al che il duca aveva risposto di non volerlo fare, avendo presentito che il pontefice diceva: « lo non mi troverei satisfatto se il duca, in compenso di queste due città, mi desse due terzi del suo stato ». Onde era disposto di ottenerle, se poteva, dal pontefice in grazia, e non potendolo, difenderle colle armi; colle quali se poi le perdesse, diceva: pazienza.

Si ha parimenti avviso, che il Duca di Milano era giunto a Ferrara, e che dal nostro oratore, che ivi stava, e dal duca era stato incontrato e alloggiato nelle sue stanze.

Da Bologna scrive messer Gasparo, che si era scusato col pontefice di non aver scritto ai Rettori di Verona, e che la sua scusa era stata accettata benignamente: che era entrato a ragionar della lega dei principi d'Italia e aveva ripetuto essere essa un disturbo della conservazione della pace, per le ragioni altre volte dette. E perchè si allegava che l'imperatore la voleva per assicurarsi del Reame di Napoli, soggiunse messer Gasparo: « Se l'imperatore sarà in pace colla illustrissima Signoria, da chi può egli temer del Reame? » Rispose il pontefice: « Egli dubita del Turco». E allora il Contarini gli disse: « E perciò la Signoria non vuole scoprirsi contra il Turco, essendo tutto lo stato e l'avere dei suoi sudditi, come si suol dire, nelle fauci di quello. Ma in ogni tempo che il Turco arma, questa Signoria è sempre solita armare; la qual cosa si faria ancora adesso, quando il Turco armasse; e perciò, se volesse offendere Cesare nel Regno, allora senz'altra lega lo potria ajutare facilmente ». A questa ragione assentì il pontefice, e disse di voler consigliare l'imperatore a non perseverare in questa opinione di lega. Significa poi di aver ricevuto le lettere del Senato circa la richiesta della giurisdizione del Golfo, la quale non parendogli allora di muovere, per non mettere tante legne al fuoco, aveva deliberato di differirla a più propizia occasione. Appresso narra la cerimonia che si fa ogni anno nel giorno in cui si celebra la memoria della creazione del pontefice: nel quale aveva esso pontefice celebrato la messa, e vi era stata la maestà Cesarea; la quale volendo nel ritorno accompagnare il pontefice alle sue stanze, egli non volle mai; ma passando per quelle di Cesare, volle che entrasse, e così si separarono. Scrive dipoi, che si era abboccato coll' imperatore, e gli aveva detto di aver ricevuto da Venezia il mandato racconcio. E l'Imperatore, gli disse: « Se volete, dunque si proseguirà il negozio della pace ». A questo rispose messer Gasparo, che dovendo in breve ivi giungere

il duca di Milano, si potria aspettarlo, parendo così a Sua Maestà; la quale fu d'accordo di lasciarlo prima venire e poi di passare ad altro. Nelli ragionamenti della lega dei principi d'Italia, scrive avergli detto l'imperatore, che il duca di Savoja pretendeva di avere certa ragione sull' isola di Cipro (1). E in fine scrive, come, ragionando col gran Cancelliere sull' istessa materia della lega, questi affermava che Cesare non faria pace, se dopo la pace non si facesse una lega fra tutti i principi d'Italia; la quale l'imperatore voleva assolutamente, dubitando che, uscito d'Italia e resi i figliuoli al re di Francia, questo re cercherebbe col nostro appoggio di farsi padrone dello stato di Milano. Al che avendo contrariato l'ambasciatore, il Gran Cancelliere soggiunse: «Per qual cagione quella Signoria non debbe almeno assentire ai capi della lega, che furono posti nella pace del millecinquecentoventitrè, li quali miravano alla reciproca difesa degli stati contra ogni principe cristiano? » Oltrediciò scrive di aver ragionato col pontefice un' altra fiata in tale materia; il quale gli aveva fatto un cenno di quel che il Gran Cancelliere gli aveva detto. E di poi soggiunse: << Ebbene, la Signoria non mi vuol pagare gl'interesse dei sali di Cervia ch'ella ebbe in questi anni passati?» Rispose il Contarini, che allora sarebbe parimenti necessario di pagare alla Repubblica l' interesse che ha patito nel pagamento delle genti tenute a conservazione delle due città. Al che il pontefice aveva detto, essere conveniente; ma per quel tempo solo che stette prigione in Castello. E qui sorridendo disse messer Gasparo: «Vostra Santità dunque con maggiore ragione dovria domandare anche l'interesse patito nell'assedio e presa di Roma, nella quale erano stati rubati e rovinati, assieme colle chiese, tanti argenti, croci, calici e reliquie ».

(1) Per la donazione fatta da Carlotta, figliuola di Giovanni III re di Cipro, al duca Carlo di Savoja nel 1484. Il titolo di re di Cipro fu d'allora in poi conservato dai principi della casa di Savoja.

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