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Scrive che il Duca di Milano era giunto a Bologna, e che aveva deliberato, per consiglio del pontefice, di non andare ad incontrarlo, acciò venisse con minor pompa: che appena giunto, l'aveva visitato, e ch' egli aveva usato verso la Signoria nostra parole molto grate e riverenti. Scrive dipoi, che egli per ragione non vedeva impedimento alla pace, quando la Signoria discendesse a farla con la lega, per la sospizione che ha l'Imperatore della Francia e dello Stato di Milano: che in quei dì il marchese di Mantova venne a Bologna, al quale andò incontro la corte di tutti i cardinali, quella del pontefice ed un vescovo per nome dell'Imperatore: che si divulgava il disegno di alcuni fautori del Marchese, che stavano appresso Cesare, i quali avevano persuaso che lo facesse duca di Milano, onde non gli era parso bene di star lontano in questa stagione, massimamente essendo venuto alla corte il duca Francesco; altri diceva essere causa di sua venuta il bisogno che aveva l'imperatore di farlo cavalcare sul milanese. Dal pontefice aveva inteso, che risuonava per lettere di Ferdinando che il Turco si era levato d' Ungheria per Costantinopoli e aveva lasciato in Buda un buon numero di gente; e che Ferdinando, sebbene avesse assai numeroso esercito, non perciò voleva fare impresa alcuna in questa invernata per ricuperar l'Ungheria, ma si voleva riservare a tempo nuovo.

Scrive messer Gabriele Venier da Bologna del giungere suo, e che il duca Francesco per maggior segno di umiltà aveva detto, che non voleva che alcuno lo incontrasse; che gli era stato detto che l'imperatore gli portava grand' odio, e perciò temeva assai di non poter ottenere le giurisdizioni dello stato suo e massime del Castello; temeva ancora la cosa del castellano di Musso (1) e di alcuni altri piccoli castelli

(1) Gio. Giacomo de' Medici, detto il Medicino, fratello di Giov. Angelo che fu Pio IV. Era allora chiamato castellano di Musso, dal luogo sul lago di Como da lui per inganno occupato. Stipendiato a vicenda dai Francesi e dagli Spagnuoli, tradì gli uni e gli altri. Dagli imperiali ebbe il titolo di

del milanese; che tutto il suo Senato gli aveva rimproverato che, dovendo temere assai di tutto lo Stato o delle parti più importanti, temesse invece delle parti e delle cose di poco momento.

Per lettere del reverendissimo Pisani si ha, che il pontefice era durissimo a voler concedere la denominazione dei vescovati che vacheranno sullo stato nostro, per l'interesse suo e della Sede Apostolica; nella quale dovevano intervenire per giustizia i cardinali, li quali erano più contrarii a questa concessione che il pontefice: che era risoluto a concedere la denominazione di cinquanta canonici della Chiesa di San Marco; cinque dei quali fossero eletti dal serenissimo principe; due dalla Casa dei Medici ed uno da messer Giovanni Pisani procuratore e dai suoi posteri; gli altri, in numero di quarantadue, dal Senato: per la qual grazia concessa, scrive il cardinale che aveva baciato i piedi santissimi del pontefice.

Da un luogo presso la Sava, scrive il segretario Leopardi la gran difficoltà che aveva avuto nel viaggio per andare alla porta del Signor Turco in Ungheria, e che teneva per certo che il Gran Signore in questa invernata ritornerebbe a Costantinopoli, lasciando buon presidio nell' Ungheria, cioè in Buda.

Alli venticinque di novembre si ridusse il Senato, dove si ebbe per lettere di messer Paolo Nani, provveditore di campo, che i nemici Germani avevano alloggiato a Bagnolo sul bresciano, e poi si erano levati, accennando di volere andare a Carvisano.

Per lettere di messer Paolo Giustiniani, proveditore generale in Bergamo, s'intese che il conte di Gajazzo (1) era

marchese di Musso e Lecco; il che fu principio d'una meschina guerra col duca di Milano, che finì nel 1532 colla cessione di quelle due terre al suddetto duca. Gio. Giacomo divenne più tardi troppo famoso in Toscana sotto il nome di marchese di Marignano.

(1) Galeazzo Sanseverino, figliuolo di Roberto.

stato a ritrovarlo, quando egli era coi Rettori della città; e gli aveva detto che i lanzichenecchi si dolevano e lamentavano della Illustrissima Signoria, che non dava loro il pagamento, e che sariano sforzati di partirsi e di andare al servigio dell' Imperatore; e che perciò temeva, che venendo i nemici di Germania, poco lontani, verso Bergamo, questi lanzichenecchi non s' intendessero con loro e dessero la città; e tanto più che i capi avevano fra loro motteggiato di questo; la qual cosa essendo venuta alle orecchie di esso conte, aveva con diligenza cercato di conoscerne gli autori; e in fine diceva che, quanto alla fanteria di questi lanzichenecchi, più non temeva, per avere scoperto un luogotenente dei capi, autore di questo male; il quale era stato fatto prigione ed aveva ordinato che fosse fatto passare per le picche. Scrive anche che in Bergamo erano venuti alle mani due che giocavano alle carte in piazza, cioè un lanzichenecco e uno svizzero; onde si era fatta una grossa scaramuccia, nella quale erano state morte forse dodici persone; e che voleva assolutamente punirne gli autori; sebbene sin d'allora le differenze loro fossero assettate.

Da Bologna scrive messer Gasparo, che aveva ragionato di nuovo col pontefice nella materia della lega, e che egli perseverava nella sua opinione per amore di Cesare, dicendo: quando la Signoria non vi assenta, esso entrerà in gran sospetto di qualche accordo segreto a suo danno. Appresso disse il pontefice: « Ditemi il parer vostro, non come ambasciatore, ma come messer Gasparo Contarini privato; vi pare che questa lega non sarebbe di comun beneficio? » Rispose messer Gasparo: « A me pare che non saria male che si facesse una segreta unione ed intelligenza, che gli stati dei principi d'Italia reciprocamente si difendessero ». La quale risposta, sebbene si potesse intendere della pace sola e non della lega (conciossiachè la pace ricerca unione ed intelligenza tacita a corrispondente difesa degli stati) niente di

meno il Pregadi mormorò, parendogli che l'oratore avesse tenuto le ragioni della lega e seguito la voglia dell' Imperatore. Scrive in fine, che il pontefice voleva deputare tre cardinali, i quali avessero a trattare coi Cesarei la impresa contro i Turchi.

Messer Gabriele Venier e il Contarini scrivono, come il duca di Milano era stato a visitazione dell' Imperatore, e che facendogli riverenza aveva detto: « Ho grandemente desiderato di usare questo ufficio con Vostra Maestà e baciarle la mano, ma la malvagità dei tempi è stata tale che ho dovuto trascorrere sino a quest' ora; nella quale io son venuto a lei anche per iscusarmi delle querele che di me le son porte da molti che mi hanno in odio; perciocchè nel tempo che io stetti nel castello di Milano, io non conosco in modo alcuno di aver fallito contro di lei. Uscito poi di là, se avessi commesso cosa contra la volontà sua, questa è provenuta dalla mala fortuna e dai modi che hanno usato i ministri di Vostra Maestà contra di me: nondimeno io son venuto a gettarmi nelle braccia della infinita clemenza sua e a chiederle perdono del mio errore ». A queste parole del duca, l'imperatore accogliendolo con umanità, benignamente rispose: che egli deputerebbe due che avessero il carico di conoscere le sue ragioni, che poi verso di lui si userebbe ogni discrezione e cortesia. Il duca replicò, che egli aveva impetrato da Sua Maestà il salvo condotto, solo per venire sicuramente alla presenza sua; giunto alla quale, e non facendogli più mestieri di esso, lo restituiva. All'incontro, lo imperatore non volendo accettarlo, il duca lo lasciò in fine in mano di uno dei consiglieri di Cesare che ivi era. Scrivono ancora, che il duca aveva loro detto di avere inteso, che il marchese di Mantova aveva instato appresso il pontefice e Cesare, che gli fosse concesso lo stato di Milano; al che il pontefice aveva risposto: « Questa cosa è molto difficile, conciossiachè la Signoria di Venezia mai lo consentirebbe ».

Lette le lettere fu messa parte dai Signori sopra le vettovaglie, che tutte le ville dei territorii dello Stato fossero tenute mandare animali grossi per uso di carne in questa Terra, cioè uno per ciascuna ogni anno; e se alcuna non potesse per povertà o carestia, dovesse supplire l'altra vicina che potesse farlo, secondo la discrezione dei periti dei luoghi; per la quale deliberazione si affermava che la città avrebbe ogni anno quattordicimila e ottocento animali. Di poi fu proposto al Senato da tutti i Savi Grandi, eccetto messer Marco Dandolo, e dai Savi di Terraferma, eccetto messer Girolamo da Pesaro, di scrivere all' oratore presso il sommo pontefice: che, perseverando i Cesarei di volere la lega e massime i capi del trattato della pace del millecinquecentoventitrè ( i quali erano stati introdotti dal Gran Cancelliere in un suo ragionamento con messer Gasparo Contarini) dovesse assentire ai due primi; cioè di aiutare il duca di Milano e difenderlo con certo determinato numero di genti, ogni volta che fosse molestato da alcun principe cristiano; e di dare all'imperatore, in caso di bisogno, quindici galere per la conservazione del reame di Napoli, solamente contro principi cristiani; e questa lega s' intendesse reciproca a difesa degli stati d'Italia. Messer Marco Dandolo, Savio del consiglio, e messer Girolamo da Pesaro, Savio di Terraferma, vollero che fosse scritto al detto oratore: che la Signoria era contenta, che ai capi della pace ne fosse aggiunto uno pertinente allo stato di Milano, per difesa del quale fosse obbligata dare le genti che voleva dargli il resto del Collegio contro i principi cristiani; nè volevano che si facesse altra menzione di lega, nè di quindici galere, come gli altri; ma sibbene che il duca di Milano fosse obbligato verso di noi reciprocamente in caso di bisogno. Lette queste opinioni in Senato, e non essendo altrimenti disputate dai Savi del Collegio, si levò messer Valerio Marcello, uno dei senatori, e parlò in arringo contro

Vol. VII.

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