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vere nè per l'onesto la Signoria non era tenuta di dargli cosa alcuna per questo conto; anzi, che Sua Maestà, con tale dimanda, si mostrava non essere così inclinata alla pace come si aveva predicato, essendo questo un cattivo principio di farla. Disse l'imperatore: «Io manderò in scrittura al pontefice la mia intenzione e volontà, così delle cose spettanti all' interesse comune, come del restante dei capi della pace che si dee fare ».

Per le ultime lettere scrive l'oratore, che si era abboccato col pontefice, dal quale aveva inteso che l'ambasciatore francese, per nome del re, porgeva partiti grandi all' imperatore, per avere lo stato di Milano; e tra gli altri, un millione d'oro da far guerra contro i Veneziani, e prometteva, avendo vittoria, di partire tra loro due lo stato di essi. Per la qual cosa Sua Santità lo consigliava a persuadere la Signoria alla lega, acciocchè non gliene avvenisse danno e pericolo. Nel quale proposito, l'imperatore, il giorno inanzi gli aveva detto: «Se io non fossi cristiano e non amassi l'anima mia, farei delle cose che non piacerebbero alla Signoria di Venezia ». Ed in fine il pontefice gli dette la scrittura della intenzione e volontà di Cesare, secondo che questi gli aveva detto di voler fare.

Lette queste lettere, sopraggiunsero quelle dei ventisette da Bologna degli oratori messer Gabriele Veniero e messer Gasparo Contarini. Avvisavano di essere stati a visitazione del duca di Milano, il quale aveva detto: che il suo agente era stato coi deputati cesarei al maneggio della pace, cioè col Gran Cancelliere, con monsignor di Prato e monsignor di Granvelle; li quali lo provocarono a proferire a Cesare quanto voleva dargli. Onde gli aveva offerto scudi cinquecentomila in termine di anni dieci, a scudi cinquantamila all'anno, per la investitura dello stato di Milano, secondo che il duca altre volte aveva promesso; soggiungendo, che il duca suo signore era povero, e che non sapeva e non

poteva offerirgli più. Nientedimeno, per non essere contrario ai voleri dell' imperatore, voleva superar le sue forze e dargli, oltre i detti, altri centomila ducati. A questa proferta avevano risposto i prenominati, che se ne maravigliavano, e che non ardirebbero mai riferirla a Cesare, dubitando che se l'udisse, accrescerebbe lo sdegno e l'odio contra il duca suo padrone; conciossiachè vedrebbe che non procede seco con quella sincerità e prontezza di animo che procedeva l' imperatore verso di lui. Rispose l'agente del duca: «< Signori dite voi ciò che vi pare ». Ed essi soggiunsero: << Pensiamo che, oltre ai cinquecentomila ducati, Cesare non si abbia a contentare di meno di ducati trecentomila; cioè centomila correnti, centomila fra termine di due mesi, e centomila in fine dell'anno ». Rispose il presidente del duca, che il suo padrone non potrebbe pagare tanti denari; ma che superando ogni suo potere, appresso gli offerti, darebbe altri cinquantamila ducati. I quali essendo parsi similmente a loro pochi, in ultimo il presidente gli accrebbe a ducati duecentomila, cioè centomila al presente, cinquantamila nello spazio di due a tre mesi e cinquantamila in capo dell' anno; e questa offerta faceva con patti, che il termine dei primi cinquecentomila ducati si prolungasse: della quale offerta, sebbene a voce i Cesarei avessero detto non contentarsi, pure con segni avevano accennato che Cesare se ne contenterebbe. Dipoi gli richiesero, che sicurtà darebbe il duca del serbar la promessa ai tempi debiti; e pensavano che deponesse, per assicurar Sua Maestà, parte dello stato di Milano o almeno le fortezze in sua mano. Rispose il presidente, che il duca suo Signore farebbe questo molto volentieri; conciossiachè non solamente parte dello stato e le fortezze di quello erano nelle sue mani, ma eziandio la propria persona. Ma che dovesse avvertire che, quando ciò si facesse, cagionerebbe sospetto negli animi dei popoli e sudditi dello stato, che quello sinceramente non fosse del suo Signore; onde si farebbero

poi difficile a contribuirgli il danaro, e sarebbe necessitato di mancare alle sue promesse; sicchè in ciò guardassero di deliberare in meglio. Il presidente, non contentandosi di questa risposta, cominciò a pregare e persuadere i nostri oratori che andassero al pontefice, affinchè egli pigliasse carico, di rimuovere Cesare da questo volere; li quali così gli promisero e s'inviarono a lui, e gli dissero: che la repubblica di Venezia non concluderebbe mai la pace coll'Imperatore, quando il duca di Milano non fosse intieramente restituito nello stato suo; conciossiachè, se le sue fortezze rimanessero in mano di Cesare, questo farebbe dubitare la Signoria che liberamente non volesse l'imperatore dar ciò che aveva promesso tante fiate al duca Francesco. A questo aveva risposto il pontefice, che Cesare vorrà essere al tutto sicuro di avere i danari che il duca gli promise; onde se non pareva opportuno di consegnare le fortezze a Cesare, si potria consegnarle in man del Caracciolo, che stava in Milano per nome dell' imperatore. Il che parimente rifiutarono gli oratori; e il papa soggiunse: « Dio voglia che la possiamo tirare a questo: » e presero licenza.

Poichè furono lette al Senato le soprascritte lettere, messere Alvise Gradenigo e messer Leonardo Emo, Savi del Consiglio, fecero proporre di scrivere all' oratore presso il pontefice (rimandandogli i capi della pace avuti in scrittura dall'imperatore, alquanto acconci e castigati) che nella parte dell' interesse che Cesare dimandava, gli dimostrasse, che la Signoria non doveva patire alcun disastro, e colla bontà del suo ingegno facesse valere le molte ragioni che essa aveva in questa causa. Tutti li altri Savi del Collegio messero, che questa opinione fosse differita sinchè si avesse risposta alle lettere del ventisei, in cui il Senato aveva deliberato di far la lega; perchè essendo ciò udito da Cesare, era da credere che non dovesse esser duro nel voler danari per l'interesse. Parlò messer Alvise Gradenigo dicendo, che nelle sue lettere

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non vi era parte alcuna che avesse bisogno di maggior luce; che il tardare di scrivere all' oratore e di farlo certo del volere della Repubblica circa i capi della pace, era pericoloso; essendo uscito di bocca di persone degne di fede in Bologna, che il pericolo che la pace non si facesse, stava nell' indugio. Rispose messer Alvise Mocenigo e disse: che era falso che da Bologna non si potesse aver maggior luce, dopo che Cesare avesse inteso la deliberazione della lega; perciocchè era da credere che, uditala, non farà altra replica di voler danari per l'interesse suo della guerra, e concluderà la pace senza che messer Gasparo vada più a persuaderla, come vogliono le lettere proposte dai due Savi grandi. Appresso, che se si delibererà il differire, con maggior consiglio rimanderebbero i capitoli castigati all' oratore; i quali ora volevano mandare non pienamente acconci, per il poco tempo che il Collegio aveva avuto di consigliarli. Gli rispose messer Leonardo Emo colla replica delle stesse ragioni del Gradenigo, e vi aggiunse: che tutti i capi corretti erano stati molto considerati nè avevano bisogno di maggiore consiglio, come sapeva il clarissimo Mocenigo, volendo confessare il vero: che allo Stato tornava di fare intendere di giorno in giorno all' oratore l'animo della Repubblica; conciossiachè, se l'oratore era tenuto dare avviso dei maneggi di Bologna ogni giorno, per informare meglio il Senato nelle sue deliberazioni, era molto più ragionevole scrivergli ogni giorno per sua maggior cognizione, ovvero così spesso che l'occasione portava. E ballottate le opinioni, fu presa quella dei due Savi.

Ai due di dicembre si chiamò il Senato, e furono lette lettere da Bologna dei ventotto del passato, per le quali l'illustrissima Signoria era avvisata: come l'oratore si era trovato col pontefice nel momento che gli oratori francesi partivano da Sua Santità; i quali, come ella gli disse, erano stati per dimandargli l'assoluzione del giuramento

che il Cristianissimo aveva fatto, quando fu fatto re, di non alienare mai parte alcuna della Francia; il qual giuramento non fu serbato da lui nella recuperazione dei figliuoli, avendo, per quella, promessa all' imperatore certa parte della Bretagna (1). Di poi, che i detti oratori sollecitavano l'imperatore che si abboccasse seco a Torino per le cose del Turco, contro il quale prometteva di andare in persona; la quale offerta non era piaciuta all' imperatore, perciocchè se il re andasse a questa impresa, non si vorrebbe sottomettere a lui, e non sottomettendosi, ne patirebbe vergogna. In fine, che esso oratore aveva ragionato col pontefice e coi cesarei della sicurezza che dimandava l'imperatore al duca di Milano; come l' oratore Veniero scriveva nelle sue, alle quali si riportava.

Le lettere dunque dell' oratore Veniero avvisavano, come i cesarei perseveravano nella domanda delle fortezze dello stato di Milano, per potersi assicurare dei danari che il duca aveva promesso sborsare. Il qual duca era stato a visitazione dei deputati al maneggio della pace, e similmente di Cesare; dai quali gli erano richieste tre fortezze, quella di Cremona, quella di Milano, e quella di Pizzichettone; alla quale proposta il duca aveva detto, che essendo tutto il suo Stato e la stessa persona sua nella mano di Cesare, non era per contrapporsi alla voglia di Sua Maestà, anzi voleva gettarsi nelle sue braccia. Scrive poi, che il detto duca l'aveva sollecitato a pregare con istanza l'illustrissima Signoria, che per niun modo dovesse consentire che le dette fortezze restassero nelle mani di Cesare; anzi che la facesse ogni cosa ch' egli fosse intieramente investito dello Stato suo.

Lette queste lettere, sopraggiunsero quelle dei ventinove dell' orator Contarini; per le quali avvisa, che aveva

(1) Vedi a questo proposito il Guicciardini e il Sismondi, e le note di Eugenio Albéri alla relazione di Marino Giustiniani, T. I.

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