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ricevuto le lettere del Senato dei ventisei di novembre, nel giorno inanzi a ore cinque, e che aveva in animo di tenere celata coi cesarei la deliberazione della lega, per avvantaggiarci nella differenza degli interessi da loro allegata; ma se il pontefice lo ricercasse, scrive che aveva in animo di non negarla. Questa confidenza dell' oratore nel pontefice, che avesse a tacere all' imperatore tal nuova, fu giudicata da molti pericolosa e dubbia. Seguiva nelle lettere: che intesa appena dall' oratore questa nuova, e fatta la detta deliberazione dentro di sè, a sei ore di notte venne a lui un segretario di Sua Santità e dissegli, che per via del legato residente in Venezia aveva inteso la deliberazione del Senato intorno alla lega, e che l'aveva mandato da lui per intendere la certezza. E qui fu notato, che nel consiglio dei Pregadi dovevano esser persone che comunicavano al legato le deliberazioni; cosa veramente indegna di quel luogo e degna di correzione e castigo. A tal richiesta gli rispose: che era vero; ma che dovesse in nome suo pregare Sua Santità che tenesse celata ai cesarei tal nuova per beneficio e vantaggio della illustrissima Signoria nella conclusione della pace. Venuto la mattina seguente al pontefice, aveva di ciò lungamente ragionato; e poi si era trasferito all' imperatore e gli aveva detto che: avendo egli scritto nei giorni passati alla Signoria che, se deliberasse di far lega con Sua Maestà, egli credeva che questa non gli chiederebbe più alcun danaro per l'interesse allegato, e che il duca di Milano sarebbe messo in possesso di tutto lo stato suo; la Repubblica inteso questo, aveva deliberato di far la lega con Sua Maestà, cioè di difendere il duca Francesco per conservargli lo Stato di Milano, e di ajutare lei nella difesa del regno di Napoli contro i principi cristiani. Cesare, intesa questa deliberazione, ringraziò sommamente la Signoria e disse: « Ora conosco che la si mette in via di voler la pace, alla quale

io attendo con ogni affezione, contro la disapprovazione di varie persone; e quanto aspetta alle cose del duca Francesco, io ho deputato quelli che le hanno a trattare, i quali di ordine mio faranno cose che piaceranno alla Signoria vostra ». L'oratore scrive di aver comunicata questa risposta al duca, dalla quale aveva ricevuto grande allegrezza. Dipoi, per opinione di tutto il Collegio, fu scritto a messer Gasparo Contarini, che unitamente con messer Gabriele Veniero dovesse negoziare col pontefice e coi cesarei per indurre l'imperatore a far la intiera restituzione dello Stato di Milano al duca Francesco, senza riserva delle fortezze; affermando che il duca non verrebbe a meno della sua promessa, e che sempre era stato ragionato di concluder la pace con la intiera restituzione dello Stato; senza la quale, la nostra Repubblica non avrebbe mai pensato di far pace e deliberar lega con Sua Maestà. Fu scritto poi, che messer Gasparo dovesse ragionar col pontefice nella materia di madonna Canziana Giorgi, moglie di messer Giovanni Emo, figliuolo di messer Leonardo; della quale l'oratore aveva già scritto di aver parlato per l'inanzi con Sua Santità.

Alli otto del mese di decembre, furono lette nel Senato diverse lettere di Bologna di messer Gasparo Contarini, sino ai cinque di decembre, molto copiose, intorno ai maneggi seguiti per giornata. La somma di queste era: che il Consiglio cesareo si aveva raccolto due o tre fiate per trattare sopra le differenze del duca Francesco, nelle quali non si era fatta conclusione: che l'imperatore era stato a ritrovare il papa e avevagli dimandato consiglio di ciò che doveva fare dello Stato di Milano, dicendo, che desiderava mettere in quello persona che fosse atta di conservarlo; che il duca Francesco non gli pareva sufficiente a questo; che molto migliore gli pareva Alessandro dei Medici, nipote di Sua Santità. A queste proposte aveva risposto il pontefice: che

quando Sua Santità avesse animo d'investire Alessandro dei Medici di quello Stato, i principi d'Italia non se ne contenterebbero, e massime i Veneziani; ancorchè vi fosse qualche speranza di consentimento, se loro si lasciasse Ravenna e Cervia; ma che in fatto questo non era buon principio alla pace, dovendosi cominciar dalla guerra per cacciare il duca Francesco dalla parte dello Stato che possedeva. Le quali parole fu giudicato da molti avere il pontefice messo in campo per porgerci partito di Ravenna e di Cervia, e attaccar pratica dello Stato di Milano per suo nipote. Appresso scrive l'oratore, che era stato un' altra volta in ragionamento coi cesarei, i quali facevano grandi istanze sopra le fortezze di Milano e sopra l'interesse sofferto dall'Imperatore nella presente guerra; ed egli aveva allegato all'incontro le ragioni della Signoria nostra e del duca di Milano, dicendo: «<lo credeva che ormai aveste messo da canto queste due differenze, e nondimeno sento che perseverate; io voglio di nuovo parlarne con Sua Maestà; e perciò passate agli altri capi della pace.» Quelli adunque vennero ai cinquemila ducati dei fuorusciti, ai quali pareva loro che si dovesse sborsare la somma degli anni passati. Disse messer Gasparo: « La Illustrissima Signoria non è tenuta a questo, per un capitolo trattato nel mille cinquecento ventitrè; dove è dichiarato, che non sia astretta a pagare ai fuorusciti cosa alcuna, se prima non se le restituiscano i luoghi ritenuti nella patria del Friuli. » A questa risposta, sebbene gli fosse fatta replica, pure non fu fatta maggiore istanza. Si venne poi a ragionare di certe altre differenze, alle quali era speranza di assettamento. Finito questo, nel giorno seguente messer Gasparo si trasferì al palazzo di Cesare, e negoziando seco, gli disse: «< Sire, se voglio parlare con Vostra Maestà, non come oratore veneziano, ma come suo servitore, lei e quelli che la consigliano di tener le fortezze di Milano per assicurarsi della promessa del duca Francesco, non intendono

la natura delle genti d'Italia (parlando sempre con riverenza). Non fa punto per Vostra Maestà, che le fortezze restino nelle mani di lei; conciossiachè, se i sudditi del duca vedranno che lei se le ha riservate, entreranno in certa opinione che il duca non sia vero padrone dello Stato, e non vorranno sborsargli denaro alcuno, ed egli sarà poi sforzato mancarvi della promessa; sicchè Vostra Maestà, volendo tenere in sua mano le fortezze, patirà maggior danno che se le assegna al Duca Francesco ». Dipoi gli disse: « Quanto ai denari che i di lei deputati domandano per l'interesse della guerra, la illustrissima Signoria non è tenuta a pagare, essendo la guerra provenuta per cagione de' suoi ministri; e tanto più che il danno sofferto dalla nostra Repubblica era forse maggiore di quello di Vostra Maestà; per cagione del quale le forze veneziane sono sì attenuate, che diviene impossibile il darle cosa alcuna: sicchè Vostra Maestà può contentarsi che la Repubblica le paghi il restante dei ducentomila ducati; a conto dei quali sborserebbe, questo Natale venturo, venticinquemila ducati, a sodisfazione sua, e con non piccolo disturbo delle cose nostre ». L' Imperatore rispose alla prima proposta di messer Gasparo: che ognuno de' suoi gli affermava e consigliava di serbar le fortezze, almeno quelle di Milano e di Como; non tanto per assicurarsi di avere i danari al tempo promesso, quanto per mantenersi il passo di venire in Italia e di mandarvi genti per difesa dal re di Francia, il quale giorno e notte pensa la via ed il modo di riaver quello stato. E qui sorridendo, riprese: «Che vi sembrerebbe, s'io vi dicessi il partito ch'ora mi fa? Mi promette al presente, inanzi la restituzione delli figliuoli, di sborsarmi duecentomila scudi; promette ajutarmi ad ampliare lo stato in Italia; mi offerisce, come si suol dire, mari e monti; mi fa pregare che mi abbocchi con lui, e che voglia trasferirmi a Torino, dov'egli verrebbe; e perciò monsignor di Tarbe era già partito di Francia a solle

citare la venuta del suo re, pensando ch'io vi debba andare, appena vi sarà giunto: sicchè intendete come le cose vanno. Quanto alla seconda proposizione, io vi dico: che è necessario che la Signoria di Venezia faccia qualche offerta, perchè a noi è stata rotta la fede contro giustizia, e i capitoli conclusi contro di noi, sono stati ritrovati in seno del re di Francia, quando fu preso sotto Pavia: sicchè noi abbiamo patito assai, non per cagione dei nostri, ma per rispetto della Repubblica; e perciò bisogna che la ci ristori in parte, se non in tutto, del danno patito »>.

Furono poi lette lettere dell' Oratore Veniero, appresso il duca di Milano, dei trenta del passato sino ai cinque del presentc; una mano delle quali era scritta insieme con messer Gasparo Contarini. La somma di esse era circa il negozio del duca Francesco colli cesarei, i quali instavano sempre sopra i ducati trecentomila, oltre i cinquecentomila per la investitura dello Stato; e sopra la voglia di ritenersi le fortezze, massime di Milano e di Como, sino a pagamento compito. Le quali fortezze il duca non poteva negare a Sua Maestà; ma ben pregava la Signoria nostra a non voler per niun modo assentire che restassero nelle mani di Cesare, acciò succedesse la pace, la quale, egli pensava che mai altrimenti avesse a succedere.

Da Firenze vi furono lettere dei ventotto del passato, ritenute sino ai trenta; per le quali l'oratore, messer Carlo Cappello, scrive della prontezza d'animo dei Fiorentini, la quale ogni di si faceva maggiore. Essi avevano detto: «< Sebbene il principe di Orange sia giunto con denari e con gente, e perciò i nostri nemici siano fatti più forti e animosi; e sebbene sia fama che i Veneziani si abbiano ad accordare col papa e coll' Imperatore, onde noi resteremo soli: nientedimeno non abbiamo nè paura nè timore; essendo scolpito negli animi nostri di mettere tutte le facoltà e la vita per difesa di questa città; e quando non potremo far altro, di

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