Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Alli nove di dicembre, nel Senato si lessero lettere dei sei, da Bologna, scritte un giorno inanzi delle surriferite, e di poco momento. Ma con queste se n'ebbero anche del Sanga, segretario del pontefice, indirizzate al legato, a cui scrive: che il nostro orator Contarini procedeva molto ristretto nel maneggio della pace coi cesarei, per non voler oltrepassar nulla da quello che gli era commesso. Onde esortava il legato, e per nome del pontefice gli comandava, che, avute le presenti, dovesse trasferirsi alla Signoria e persuaderla, che non guardasse tanto per sottile nell' offerire qualche somma di danari all' imperatore per concluder la pace, così salutifera a tutta Italia; essendo ferma intenzione di Cesare di non consentirvi mai, senza qualche offerta dei Veneziani, che non fosse minore di centomila scudi: ampliando sopra di ciò le ragioni cesaree, e tornando ad esortar caldamente la Signoria.

Lette le lettere, il Senato deliberò di scrivere a messer Gasparo Contarini, che, col nome di Dio, offerti prima li scudi ottantamila, non contentandosene i cesarei, dovesse accrescerli sino ai centomila, spedite che fossero le altre differenze, cioè quella del duca di Milano. Il quale, se si era contentato di dare in mano dell' imperatore quelle due fortezze, sino al compiuto pagamento dei trecentomila scudi, non bisognava far altro che replicare ai cesarei: che l' imperatore non potrebbe far meglio che investire il duca Francesco di tutto il suo stato, per levare ogni sospizione che potesse cadere negli animi dei principi d'Italia, e massime dei suoi sudditi. Quanto alla differenza dei fuorusciti, mostrargli che la Signoria nostra, per i capitoli del 1523, non era tenuta di assegnar loro l'entrata dei cinquemila scudi, se prima non le fossero restituiti i luoghi occupati nel Friuli;

1539, pubblicati l'anno scorso dal Molini nell'Appendice all'Archivio Storico Italiano T. I. pag. 481-485. Temevano lo sbandarsi degli eserciti tedeschi e spagnuoli, dopo caduta Firenze, anche il duca di Ferrara e quello di Urbino.

li quali sinora erano nelle mani di suo fratello; e che al presente era contenta, che Sua Maestà elegesse un giudice e la Repubblica un altro, i quali decidessero di questa lite, e ponessero i confini tra i nostri luoghi e quelli dei vicini. Similmente, che dovesse trovar modo, che il duca d' Urbino restasse sodisfatto.

Fu poi deliberato, che fossero eletti tre Avogadori di Comune, i quali andassero per tutto lo Stato di Terraferma, come Avogadori straordinarii, a udire le lamentazioni di ognuno, a citare i malfattori, e far giustizia; con salario di ducati sessanta al mese, e il quarto di quello che ricupererebbero; con obbligo di menar seco sei cavalli e due staffieri, e star fuori un anno; e ritornati, dovessero entrare fra gli Avogadori di Comune ordinarii. La qual parte fu presa e deliberata nel maggior Consiglio.

Alli quindici di dicembre, furono lette nel Senato le lettere di messer Carlo Cappello da Firenze; per le quali avvisa, che nella torre di San Miniato si era appiccato il fuoco, talmentechè si abbruciò il gottone posto per riparo dall' artiglieria dei nemici; nondimeno la torre era stata di nuovo munita, e non si temevano gli assalti di quelli.

Da Bologna furono diverse lettere di messer Gasparo, sino alli tredici del presente; per le quali si ha: che l'imperatrice aveva partorito un figlio in Ispagna (1); che messer Gasparo era stato a visitazione dell' imperatore, e per nome della Repubblica si era congratulato di quel nascimento; che Sua Maestà l'aveva ringraziato assai, dicendo: che desiderava grandemente che questo figliuolo, cogli altri fratelli, le fossero donati dalla Divina Maestà a onore e servizio di quella. Scrive poi d'essere stato coi cesarei e col pontefice, e di avere avuto i capi della pace; nei quali restando ancora qualche difficoltà, si era lasciato intendere di volere trattarne due colla persona dell' imperatore; cioè (1) Ferdinando, che morì l'anno dopo.

quello dello Stato di Milano, e quello dell' interesse che la Signoria nostra avrebbe dovuto pagare a Cesare. In fine si era ritrovato con Sua Maestà, dalla quale non aveva potuto ottenere più di quello che ottenne dai cesarei. Aveva comunicato al pontefice, che la Signoria nostra era contenta di dare all'imperatore, per ultimo partito, ottantamila scudi, e pregò Sua Santità a tener segreta questa deliberazione. Ma all'incontro, il vescovo di Verona (1) gli aveva detto: che il pontefice sapeva per via del legato, che la Signoria aveva deliberato altrimenti, cioè di pagare a Cesare centomila scudi; per il che messer Gasparo non sapeva più come potesse avvantaggiare la Repubblica, vedendo che nel Senato non si fa cosa alcuna che non pervenga subito alle orecchie del pontefice, per segreta che sia, mediante l'avviso del legato.

Alli diciassette dicembre nel Senato furono lette lettere da Bologna dei 14 e dei 15 del mese; per le quali messer Gasparo avvisa: essere stato con Sua Santità, la quale gli aveva detto, che le differenze si possono riputare acconcie; perchè, quanto spetta all' interesse, Cesare era risolto di volere al tutto centomila scudi; quanto ai fuorusciti, non si farebbe altra difficoltà che di dar loro le paghe scorse; dei particolari pertinenti al duca d'Urbino, quello che dice: salvis juribus pragmaticis, passerebbe; e l'altro, pertinente allo stato di Sora, s'acconcierebbe per modo che l'una e l'altra parte restasse contenta; che sarà accordato sborsare li duecentomila ducati a venticinquemila all' anno, se si prometta di dargli per questo gennaro li primi venticinquemila. Scrive dipoi, che il duca di Milano aveva ceduto a tutte le dimande dei cesarei, e sollecitava con ogni istanza e potere messer Gasparo, che non dovesse per alcun modo assentire che le fortezze del suo stato rimanessero in mano di Cesare; e l'oratore ricercava lume dal Se(1) Matteo Giberti.

nato in che modo egli si abbia da governare in questa sola cosa che restava da finire, accusando la poca prudenza e l' incostanza del duca.

Il Senato rispose: che, essendo sciolte le difficoltà spettanti a noi, dovesse l'oratore concluder la pace. Quanto alla richiesta del duca di Milano, dovesse affaticarsi, ch'egli fosse reintegrato di tutto lo stato, replicando le ragioni altre volte dette; e se la Maestà Sua persistesse di voler per cauzione le fortezze, egli procurasse almeno che vi fossero poste persone non sospette alli sudditi; e in questo ovvero in altro modo migliore satisfacesse al duca prefato.

Alli venti, si lessero altre lettere da Bologna, la contenenza delle quali si è: che il nostro ambasciatore, per più avvantaggiare le cose della Signoria, aveva sopra una carta formato e dichiarato la modula dei capitoli della pace, e l'avea presentata ai deputati cesarei e al pontefice. Il primo capitolo era, la restituzione di Ravenna e di Cervia alla Sede Romana; il secondo, la riserva delle ragioni che pretendono avere nei territorii di questa città donna Canziana e Lodovica Giorgi; il terzo, la restituzione delle terre di Puglia all' imperatore; il quarto, il pagamento del restante dei ducati duecentomila, a ducati venticinquemila all'anno, dovendo questo gennaio prossimo pagarne venticinquemila; il quinto, pagare ancora all' imperatore, per l'interesse della presente guerra, ducati centomila, promettendo di sborsare scudi cinquantamila alla fine di gennaio, e gli altri alle calende di novembre 1530; il sesto concerneva le due differenze col duca d'Urbino; il settimo, li cinquemila ducati da sborsarsi ai fuorusciti ogni anno; con questo però, che nello spazio di un anno l'imperatore fosse obbligato di farci fare la restituzione dei nostri luoghi nel Friuli; e se restasse differenza, si dovessero eleggere due, uno per parte, col pontefice per mezzano, che giudicassero; l'ottavo, che al conte Brunoro da Gambara fosse con

Vol. VII.

28

cesso di continuare ai servigi di Cesare, senza pregiudizio delle cose che tiene nel Vicentino; il nono, che al patriarca d'Aquileja fosse dal pontefice fatta ragione in quelle cose che pretendeva e concernevano l'interesse della Repubblica. Questi capi furono tutti accettati dai cesarei e dal pontefice, sebbene in ciascuno di essi fosse mossa qualche difficoltà non di fatto ma di parole: eccettuato il secondo capo, del quale, per essere negozio particolare, volle il pontefice che si facesse nota a parte, per un breve che poi ordinerebbe. Oltre di ciò non rimaneva altra difficoltà, e si attendeva che fosse deputato un giorno per concludere e sigillare la pace.

Lette le lettere, fu proposto: che, essendo venuto in questa terra il Taberna, come oratore del duca di Milano, e avendo dimandato alla Signoria nostra ad imprestito ventimila ducati, pei grossi pagamenti che il duca doveva fare all'imperatore, il serenissimo principe rispondesse: che non si poteva ora accomodare Sua Eccellenza, per gli interessi della guerra patiti; e che pure, desiderando di sodisfarla in qualche modo, si aveva pensato di dargli sali, per l'ammontare di ducati quindicimila, dando malleveria di pagarli, come da lui ci era offerta: e se il detto Taberna continuasse a chiedere i danari contanti, fosse deliberato che il principe nostro gli offerisse diecimila ducati, da esser pagati dei denari delle occorrenze. Per questa opinione parlò messer Francesco Veniero, Savio di Terraferma, e disse: che avendo la Repubblica nei tempi passati e di guerra dato ajuto al duca di Milano, doveva tanto più ajutarlo ora che si trattava di concluder pace; il che non facendo, si perdeva tutto quello che pel passato si era speso per lui: che tornava in beneficio della Signoria di smerciare con questo mezzo il sale, perchè sempre con simili mercati guadagna. Ma udendosi mal volentieri dal Senato queste ragioni, messer Francesco fu sforzato di scendere dall' ar

« ÖncekiDevam »