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fossero bastevoli a resistere facilmente alle cesaree, che non erano grandi: al quale effetto la doveva animare l'esempio dei Fiorentini, i quali non perdonavano ad alcuna cosa per acconciarsi coll' imperatore e col pontefice.

Da Firenze furono avvisi del nostro oratore, che i Fiorentini avevano perso un castello, ma che erano più animosi che mai nel proposito di mantenersi in libertà contra i disegni dei nemici; che nella città avevano forse settemila fanti, prontissimi a ogni difesa.

Da Costantinopoli furono lettere dei ventinove di ottobre, di poca importanza. Lette le lettere, fu proposto da tutti i Savi di commettere agli oratori Contarini e Veniero, che unitamente si conferissero subito al pontefice, col quale per nome della Signoria e del Senato, si congratulassero della pace, ringraziando degli ufficii fatti per essa: che andassero poi da Cesare a far lo stesso, aggiungendo, che si eleggerebbe una mano di ambasciatori, per non mancare di quanto la Signoria era tenuta verso di Sua Maestà.

Appresso, fu risposto alle lettere di Francia e dato avviso a quel re della conclusione della pace coll' imperatore, col pontefice e col duca di Milano: che volentieri si farebbe la restituzione delle terre di Puglia, massime cedendole per la ricuperazione dei figliuoli di Sua Maestà. Furono dati questi medesimi avvisi in Inghilterra, e fu in conformità scritto all' ambasciator nostro presso il duca di Ferrara.

Di poi fu messo da messer Domenico Trevisan, procuratore, messer Marco Dandolo e Leonardo Emo, Savi del Consiglio, dai Savi di Terraferma, eccetto messer Girolamo da Pesaro, che essendo seguita la pace, per scrutinio di questo Consiglio si facesse elezione di quattro ambasciatori dei primari della Repubblica, al sommo pontefice e all' imperatore; i quali fossero tenuti partirsi con diligenza, con quella commissione che sarà loro data, a spese della Si

gnoria, dalla quale per sovvenzione fossero dati ducati duemila. E che appresso si eleggesse similmente un ambasciatore al sommo pontefice, il quale avesse a far residenza, in luogo di messer Gasparo Contarini, con ducati d'oro centocinquanta al mese; e che se ne eleggesse un altro presso a Cesare collo stesso salario. E così fu deliberato; ma fu contradetto prima da messer Alvise Gradenigo, il quale affermava: #che per questa deliberazione, facevasi coll' imperatore e col pontefice maggior dimostrazione di allegrezza di quello si conveniva ad una cosa, che senza dubbio sarebbe dispiacevole al Turco; tanto più che la si faceva sul volto del suo ambasciatore, il quale ora si ritrovava in Venezia: che sarebbe migliore consiglio lo espedire inanzi e dar licenza a questo ambasciatore turchesco, e poi eleggere li quattro nostri oratori. Gli fu risposto da Leonardo Emo, Savio del Consiglio, ch'era in settimana; e le ragioni furono le infrascritte. La prima, che all' ambasciatore del Signor Turco, venuto in Collegio, era stata dal serenissimo principe comunicata la conclusione della pace, e dichiarata la necessità pubblica di questo effetto; perchè la Signoria nostra era rimasta sola, abbandonata da tutti i principi d' Italia, e dal re di Francia; e il duca di Milano, unico fra i nostri confederati, si era anch'egli accordato coll' imperatore. Sicchè la Signoria fu sforzata anch'essa di provvedere alla conservazione dello stato suo; per la quale dovette restituire al pontefice le due città che teneva nella Romagna, e le tre che possedeva nel Reame all' imperatore. L'altra, che per l'opinione di messer Alvise Gradenigo dimostravamo d'essere malcontenti di questa pace; conciossiachè, se si aveva rispetto al Turco nel rallegrarsi coi principi, coi quali era stata conclusa la pace, molto maggiore rispetto si avrebbe dovuto avere di fare la conclusione della pace medesima, che di rallegrarsene, dopo fatta, con loro. Poi disse: il magnifico messer Alvise Mocenigo, quantunque non abbia ancor

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fatta leggere al Senato la sua opinione, nondimeno si lascia intendere di non volere che si presti obbedienza al pontefice: opinione veramente mala e contraria all' antico costume della Repubblica, di mandare ai pontefici, dopo la loro creazione, degli ambasciatori per prestar l' obbedienza; la quale, già da tanti anni, non era stata eseguita verso Clemente settimo. Soggiunse infine che, sebbene egli non fosse in alcuna opinione di dover essere degli eletti, non voleva tuttavia ritenersi dall' asserire, che non sarebbe stato utile alla Repubblica che a lui fosse dato tal carico; sì perchè era in odio al Pontefice, per gli uffici fatti senza rispetto da lui contro la Santità Sua in diverse pubbliche occasioni; e sì perciò che, dovendosi fra il termine d'un mese trovare forse duecentomila ducati per pagare l'imperatore e il denaro per pagare le ciurme che si dovevano disarmare, ed avendo egli avuto tale maneggio di trovar danari per il bisogno pubblico più volte, aveva per conseguenza più pratica in questo che molti altri, e sperava che quelle somme si troverebbero coll'industria sua e di messer Francesco Contarini, cassiere del Collegio, senza mettere angherie alla Terra; e se pur ce ne fosse necessità, non sarebbe certamente più di una. Dipoi rispose tacitamente alla opinione di messer Girolamo da Pesaro, che accennava, che insieme cogli ambasciatori al pontefice e a Cesare, se ne eleggesse anche uno al Signor Turco, dicendo: che non era convenevole mettere insieme l'elezione degli ambasciatori a principi cristiani con quella dell'ambasciatore al Signor Turco; ma che deliberata una, si farebbe poi l' altra, essendo tale la opinione di tutto il Collegio. Ed avendo parlato più di un'ora e mezza, messe fine alle quattro ore di notte; e messer Alvise Gradenigo propose, che la materia presente fosse differita al giorno seguente, e che nella mattina fosse significato all' ambasciator turco, che eravamo astretti di eleggere oratori all' imperatore ed al papa; e nel dopo pranzo si facesse nel Senato

tale elezione. E così, quantunque messer Alvise Mocenigo volesse salire in arringo per difendere la sua opinione, nondimeno per essere l'ora tarda fu licenziato il Senato, dando sagramento a tutti di profonda credenza, acciò non si dicesse che v'era difficoltà nel prestar l' obbedienza al pontefice.

Alli ventinove di decembre, nel Senato furono udite lettere da Bologna, dei ventisette, scritte unitamente da messer Gasparo Contarini e da messer Gabriele Veniero; le quali avvisavano, che il pontefice e l'imperatore avevano deliberato che la pubblicazione della pace si facesse nel primo giorno dell' anno 1530, a suo modo; e tanto più venendo quello in giorno di sabbato, che significa quiete: e pregavano che la Signoria parimente ordinasse in detto giorno quelle feste di fuochi e di solennità, che si sogliono usare in simili casi. Appresso, che si divulgava per quelle corti, che Cesare e il papa volevano partire fra pochi giorni; quello per andare a Siena, dove gli si apparecchiavano gli alloggiamenti, questo per Pistoja; affinchè l'accostarsi di Sua Santità e dell' imperatore a Firenze, desse favore all' impresa contro i Fiorentini (1). Lette queste lettere, fu deliberato che si avesse a celebrare la solennità della pace nel giorno primo dell'anno, secondo l'imperio. Fu ancora proposto da tutto il Collegio, eccettuati li Savi agli Ordini, che, essendo seguita la pace, fosse data licenza al capitano generale da Mar, con questa condizione, che rivedesse tutte le galere e ne lasciasse in armata quattordici di quelle che giudicasse migliori, computando in queste la galera del proveditor Pesaro, che avesse

(1) Carlo V faceva tormentare la generosa Firenze, ma non gli piaceva di assistere a quel tormento. Clemente VII, non solamente non avrebbe osato passare per la Toscana, ma (stando agli annali manoscritti del Negri, citati dal Giordani) temeva persino, che il principe d'Oranges venisse coll' esercito a fargli violenza in Bologna.

L'imperatore tornò in Germania per la via di Modena e Mantova ai 22 di marzo 1530, e Clemente, nove giorni dopo, per la via di Loreto, a Roma.

a restar fuori colla sua persona, la quinquereme e due galere bastarde; le altre fossero licenziate, a quattro alla volta, con buon ordine. All'incontro i Savi agli Ordini proposero, che restassero in armata quelle che v' erano andate ultimamente, e che il generale fosse tenuto a provvedere al bisogno loro, sì di ciurme, come di armeggi. Per questa opinione parlò messer Francesco Morosini, Savio agli Ordini, allegando ch'era maggior discarico pel generale il dichiarargli le galere che avevano a star fuori, che il rimetterle a lui; poi, essere più onesto che le più nuove e le ultime partite restassero in armata, e non le più vecchie; essendo disconvenevole che le andate di fresco, che avevano speso assai per mettersi in ordine, dovessero ora ritornar dentro e non continuare il lor reggimento. In fine, fu deliberata l'opinione del Collegio; dal quale pure fu preso, che le nostre genti, ch' erano sul bresciano, sul bergamasco e sul veronese, si avessero a distribuire secondo la porzione loro nei territorii delle nostre terre, e che, fatta la cernita delle genti, quelle si riducessero al numero di quattromila fanti, e il restante fosse licenziato, per alleggerire le grandi spese che si erano sostenute.

Fu proposto da messer Alvise Gradenigo, messer Alvise Mocenigo e messer Leonardo Emo, e dai Savi di Terraferma che, conciossiachè il conte di Cajazzo avesse mancato più volte di fede alla Signoria, e avesse usate diverse discortesie nei nostri luoghi del bergamasco e del bresciano, anche contro i nostri Rettori, fosse data licenza a lui e a tutta la sua compagnia. Alla quale opinione, quasi passata e principiata a ballottare, contradisse messer Valerio Marcello, provveditore sopra le vettovaglie, affermando: che, non era onesto il correre a furia alla condannazione d'un capitano, prima che fossero intese le sue ragioni e comprovate le imputazioni; poi, che non era utile alla Repubblica l' ingiuriare una persona simile, la quale a tempo e a luogo po

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