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trebbe recarle danno: persona benemerita, nelle mani della quale erano passate le principali faccende di questa guerra; e sebbene al presente gli fossero imputate diverse infamie, egli credeva che queste provenissero dalla gara e malignità de' suoi emuli: che, essendosi in Bologna adoperato l'orator nostro acciò l'Imperatore gli facesse restituire i suoi possedimenti sullo stato di Milano e di Cremona (1), e fosse anche esaudito per rispetto alla Signoria nostra, era pur segno ch'ella stimava degne della sua grazia la fede e le opere del conte: che questa deliberazione cagionerebbe maraviglia non piccola nell' animo di Cesare, il quale a nostra istanza aveva dimostrato benevolenza verso di lui, e noi ora l'avevamo per ribelle e cattivo ministro: e finalmente, che questa opinione non era se non dei tre Savi Grandi e dei Savi di Terraferma; non volendo gli altri aderire, perchè l'hanno per opinione inonesta ed inutile.

Rispose a messer Valerio, messer Francesco Soranzo, Savio di Terraferma: che nelle Repubbliche due cose si ricercavano per la conservazione e accrescimento di quelle; la prima, di premiare i benemeriti, per invitare i sudditi al beneficio; la seconda, di castigare i malvagi, per esempio degli altri: che il conte di Gajazzo aveva più volte servito male e con poca fede, essendosi più fiate ritirato dagli stipendi ai quali si era obbligato, fuori di tempo, a mezzo le sue condotte, e quando la Repubblica ne avea bisogno e doveva per forza servirsi dell' opera sua: che il suo luogotenente aveva saccheggiato Romano e il territorio, ed era entrato per forza nel castello, minacciando il Rettore con parole ingiuriose verso la Signoria, come si prova dalle lettere di esso Rettore lette al presente in Senato: che più

(1) Sembra che questi possedimenti, ora restituiti al conte di Gajazzo per intervenzione della Signoria di Venezia, fossero stati già nel 1526 occupati dal marchese del Guasto. Vedi il Vol. I. dei Documenti copiati dal Molini e annotati dal Marchese Capponi, Doc. CXXVII. pag. 225 ec.

volte si era inteso con Paolo Luciasco, capitale nemico di questo stato, cui le genti del conte avrebbero per lo passato potuto prendere, ma non vollero; anteponendo il rispetto di quello al beneficio e al volere della Signoria nostra; che l'ora era giunta di cassarlo; e tanto più, che se gli pervenisse all' orecchia che la Repubblica non voleva più il suo servizio, egli se ne partirebbe da sè, senza licenza e con scorno di quella: che era vero che gli altri Savi non proponevano questa parte, ma era pur vero che ciò facevano, intendendolo per licenziato, colla parte poco inanzi deliberata di dar licenza a tutte le genti e ai capi loro, tranne i quattromila fanti coi loro capitani, nel numero dei quali non vi era il conte di Gajazzo. Il quale in questa guerra, essendo ai nostri stipendi, aveva fatto tante rovine per ogni luogo del bergamasco ov' era stato, tanti saccheggiamenti, tanti soprusi e tanti incendi, che non poteva dimostrare animo peggiore, se ci fosse stato palese nemico. Aggiunse, che non negava che l'orator nostro avesse fatto buono ufficio per lui a Bologna; ma che ciò non darebbe cagione di maraviglia all' Imperatore, ma sì di riputazione e d'onore alla nostra Repubblica, la quale a suo tempo sapeva e voleva favorire i suoi ministri, e a suo tempo cassarli e castigarli, secondo i diportamenti.

Rispose a messer Francesco Soranzo, il Patrone dell' Arsenale, messer Piero Orio, discorrendo e ampliando le ragioni dette da messer Valerio Marcello; alle quali aggiunse il pericolo del danno che potria fare costui, levandosi dal servizio nostro, armato com'era, col saccheggiare i territorii, abbruciare le case che per cammino gli fossero occorse, alle quali si sarebbe trasferito a bella posta per danneggiarle, anche se fossero fuori di strada; che era ghibellino e della fazione imperiale; sicchè tornerebbe a beneficio pubblico il trattenersi ancor qualche giorno, e in questo mezzo certificarsi delle imputazioni che gli si facevano; e ritro

vandosi vere, non solo si dovesse cassare, ma cercar modo di averlo nelle nostre forze, e fargli tagliare la testa. Messer Girolamo Grimani venne a rispondergli per le ragioni discorse da messer Francesco Soranzo; poi si ballottò la parte, e fu preso di licenziare il suddetto conte.

Furono poi lette le parti disputate nel giorno inanzi circa l'elezione degli ambasciatori; e conciossiachè nella mattina l'ambasciatore del Turco era stato in Collegio, e il principe gli aveva comunicato il successo della pace, messer Alvise Gradenigo entrò nell' opinione di messer Domenico Trivisano e compagni. Messer Alvise Mocenigo fece poi leggere la sua opinione, la quale fu: che al presente si dovessero eleggere quattro ambasciatori all' Imperatore per congratularsi della pace, i quali avessero dopo da presentarsi al pontefice e fare con esso lo stesso ufficio. Ma se per caso fossero ricercati dell' obbedienza, dovessero dire di non avere circa di ciò ordine alcuno, e che ne scriverebbero volentieri alla Signoria. Letta questa parte al Senato, il Mocenigo disputò due cose: la prima, che questi ambaciatori erano principalmente destinati a Cesare e non al papa; che la pace era primieramente stata sigillata con Cesare, venuto a Bologna per tale effetto; dove poi per l'istessa cagione si era conferito il pontefice: la seconda, che questa obbedienza ricercata dal papa non si doveva dare. Per confermare la prima, soggiunse: che il nostro mandato di essa. pace a Bologna, diceva, ad ineundam pacem et foedus cum Carolo imperatore, e non diceva: cum Pontifice; onde l'Imperatore avrebbe a male che questi oratori andassero prima al papa e poi a lui: che, quand' anche questi oratori fossero prima destinati al pontefice, egli saria del parere che non gli prestassero l' obbedienza; conciossiachè questa Repubblica non ha mai voluto, dacchè è papa, mandargli oratori per questo fine; onde se al presente si volesse daddovero mandargli ambasciatori per l' obbedienza, egli sospetterebbe

di frode e direbbe: come è possibile che ora questi Signori mandino a darmi obbedienza, non avendo voluto darmela da tanti anni? certo questo ufficio non è reale e fatto di buon cuore, ma finto e simulato: che a messer Gasparo Contarini, disegnato a lui come a sommo pontefice e capo della Chiesa universale, non era mai stato ordinato che gli parlasse di obbedienza; e questo si fece, non contro la somma autorità pontificale (la quale in ogni tempo si aveva avuto in osservanza e riverenza), ma per parlar chiaro e schietto, come si deve in Senato, per le private condizioni di questo principe; che è fiorentino (nome che pare essere emulo del veneziano), e della famiglia de' Medici, ereditaria nemica della libertà, della quale questa Repubblica è gelosissima e osservantissima. E se messer Gasparo Contarini si ritrovava ambasciatore a papa Clemente, ora non lo è più a papa Clemente solo, ma insieme a Carlo V imperatore, col quale, come primario, aveva negoziato e concluso la pace. Quanto alla seconda cosa, cioè di non doversi dare la richiesta obbedienza, disse il Mocenigo d'insistere sopra questa opinione, perchè conosceva che il pontefice la ricercava con inganno; volendo con questo mezzo obbligarci a pagare gli interessi dei sali di Cervia, a spogliarci delle denominazioni, delle quali ormai ci siamo impadroniti, avendone fatte diverse (e se saremo uomini, come dobbiamo essere, le conserveremo ), a toglierne la libertà delle imposizioni sul nostro clero, come fanno gli altri potentati. Le quali tre differenze, per quanto egli potea giudicare, il pontefice avrebbe voluto risolvere inanzi la conclusione della pace, se non era la destrezza di messer Gasparo Contarini, il quale aveva accennata qualche intenzione di questa obbedienza, per non impedire l'effetto salutare di essa pace; e non era mancato chi voleva intricarla, persuadendo a Sua Santità, che ne differisse la conclusione fino a tanto che la Signoria nostra si fosse piegata al suo voto. E qui disse: « Signori,

oppugnamur a nostris; perchè la difficoltà che patisce la Repubblica nelle cose ecclesiastiche, nasce dai nostri prelati, e massime dai maggiori, cioè dai cardinali veneziani; li quali avrebbero operato secondo il disegno del pontefice, se non fosse arrivato in questa città l'ambasciatore del Turco, mandato da Dio in questi tempi, che aveva messo in gelosia e bisbiglio tutti quelli che negoziavano la pace, e massime i cardinali; per cui erano concorsi alla conclusione, procurata con quella modestia e destrezza del nostro oratore, che ho rammentato. Il che conferma la venuta presente in questa città del vescovo di Verona, Giberti, creatura del pontefice; il quale ci appresentò un breve di raccomandazione e di credenza circa alcuni particolari, che si sarebbero poi dichiarati da lui a bocca, come da persona che intendeva gli intimi segreti di Sua Santità. Ma per confrontare le cose e venire in luce della verità, la Signoria Vostra si dee ricordare, che nei giorni precedenti venne in Collegio il Legato, e presentò una lettera d'un segretario del pontefice, data in Bologna, per la quale viene affermato costantemente, essere impossibile di concludere questa pace, senza che prima si sodisfaccia alle tre richieste pontificie (che sono le sopra scritte); la qual lettera, volendo egli lasciarla in Collegio, gli fu resa, asserendo: che non occorreva altra deliberazione del Senato, essendo esso risolto di non volere per modo alcuno assentire alle dimande del pontefice: e così gli fu data licenza. Questa venuta del Legato in Collegio ci aveva chiariti di ciò che aveva da dire il Giberti vescovo di Verona, colle lettere credenziali. Ma l' uno e l'altro, intesa la venuta di Gianus Beì, si erano ammutiti; e la pace era seguita dipoi, senza dubbio per paura che tal venuta non avesse portato loro qualche impedimento. Onde voglio concludere, questa domanda di obbedienza del pontefice non essere per altra cagione, che per rimuoverci dai nostri disegni, e indurne ai suoi voleri circa le tre sopradette pro

Vol. VII.

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