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larsi della pace, avesse rifiutato questo carico, e che il Senato l'avesse compiaciuto (come senza dubbio sarebbe andata), egli entrerebbe in maggiore sospetto; onde potrebbe seguire qualche nuova difficoltà, dopo le tante già superate per la detta pace. Quanto alle ragioni di messer Marco, soggiunse: ch'egli non era di sì piccola facoltà, che in uno di questi casi egli non potesse farsi onore da per sè e coll'ajuto di amici; e quando tutti gli mancassero, noi ci offriamo di ajutarlo ben volentieri: che il viaggio era comodissimo, perchè si andava in burchiello sino a Bologna, e non a cavallo; senza correr pericolo nè per la vecchiezza (che non era poi tale che passasse gli anni ottanta, oltre i quali s'intendeva il detto del Salmo: si autem in potenitatibus octoginta anni et amplius eorum, labor et dolor) nè per l'infermità del difetto del polso, la quale gli era I forse occorso una volta o poco più: che la opposizione della lite non valeva; perciocchè si sapeva che l'uomo dabbene e il buon senatore (come per tale avea conosciuto in ogni tempo e in ogni luogo messer Marco) non si muoveva per rispetti particolari, anzi se ne scordava ogni volta che s'incontravano con quelli della Repubblica. Concluse finalmente, che non solo il Senato non doveva accettar questa scusa, ma che i signori Consiglieri, non dovevano, per opinione sua, mettere la parte, nè potevano ingerirsi in questa materia.

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Messer Matteo Dandolo, figliuolo di messer Marco, che si trovava nel Senato per imprestito di cinquecento ducati, scusandosi modestamente, se parlava contro la Serenità Sua, rispose: che l'amore del padre (che gli era carissimo, e che dai più teneri anni gli aveva dimostrata una pietà forse maggiore di quella che usano gli altri padri verso i loro figliuoli) lo spingeva a difendere le sue ragioni; aggiungendo, ch' egli aveva passata sotto silenzio un' altra sua infermità, onde gli era impossibile il cavalcare; che continuamente serviva

la Repubblica, ora dentro ora fuori, ora in uno, ora in un altro magistero; onde non sarebbe gran cosa, se in questa età decrepita e male condizionata per l'accidente di perdere il polso, avvenutogli più di tre fiate, essa gli concedesse in grazia di finire la vita nelle pietose braccia dei suoi, e non mandarlo a morir certamente fra gli estrani: che se bene si andasse in burchiello per un gran tratto, egli sarebbe nondimeno sforzato per tre o quattro miglia di andare a cavallo, inanzi che si giungesse a Bologna; che per Bologna poi non si andava se non a cavallo; che il rispetto dell' imperatore, allegato per fondamento in contrario, parlando colla massima riverenza) era di poca o niuna importanza; imperocchè la cosa non era degna di venire alle orecchie dell'imperatore, il quale, s' anco la sapesse, la stimerebbe poco; in quanto che, in cambio d'un povero vecchio impotente, sarebbe eletto un altro valoroso e non men degno di suo padre: che appresso i Romani era costume, che chi avesse servito lungamente, era sciolto da ogni ufficio o carico; e appresso i maggiori e i presenti della nostra Repubblica era provisto per legge, che il senatore giunto agli anni settanta, si potesse esimere da ogni obligo eziandio nelle cose minime, come sarebbe quella di accompagnare il serenissimo principe e la illustrissima Signoria, quando esce di palazzo: che nella milizia si osservava lo stesso; perchè giunto il soldato o il capitano a questi anni gravi, poteva ricusare ogni carico liberamente e senza rispetto o contradizione di alcuno; e questi tali erano dai Latini chiamati emeriti; il che (fosse detto senza jattanza) si poteva affermare del clarissimo suo padre, benemerito soldato e servitor fedelissimo della patria. E qui supplicò i Consiglieri, che quella cosa che fu concessa a molti in questi anni e mesi (cioè a messer Francesco Foscari, a messer Matteo Leoni, a messer Piero e Francesco Pesaro, e a suo padre altre fiate), ora non gli fosse

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negata; ma, mettendo la parte, si ponesse il Senato in libertà di esaudirlo, e di far ciò che gli piacesse per sola grazia e munificenza. E qui finì il suo parlare con grande sua lode ed universale sodisfazione. I Consiglieri però non vollero mettere la parte, eccetto messer Lorenzo Bragadino, che fece proporre che fosse accettata la scusa di messer Marco Dandolo, attese le ragioni dichiarate al Consiglio. Letta questa parte al Senato, di nuovo si levò il principe e replicò che il suo rispetto era di gran momento, e che se si compiacesse la voglia d'un gentiluomo privato, si accrescerebbe il sospetto dell' imperatore che fossimo venuti alla pace sforzati e malcontenti; che si aprirebbe la porta agli altri colleghi di messer Marco a supplicare d'essere scusati per le stesse ragioni; e tanto più ch' era opinione comune del Collegio che, finita la guerra per la pace, questi oratori non fossero sottoposti alla parte del Consiglio contro i rifiutanti le legazioni a teste coronate; sicchè non si dovesse attendere a simili dimande, perchè la cosa non finirebbe in messer Marco solo, a danno e vergogna della Repubblica. E mandata la parte per il solo Bragadino, fu deliberato che messer Marco fosse tenuto di andare alla legazione.

Dipoi fu proposto che ritornando messer Gasparo Contarini a Bologna, nè potendo ora accettare il grado di Savio del Consiglio, gliene fosse riservato luogo per quando tornasse a casa, e in questo mezzo, non potendo vacare il Collegio, fosse eletto uno in sua vece. In luogo poi del Contarini e di messer Alvise Mocenigo, ch'era stato eletto consigliere e aveva giurato, furono fatti messer Luca Trono e messer Gasparo Malipiero. Poi furono creati li Savi di Terraferma (chè era stato differito di farli ai ventinove del passato, per l'ora tarda) e furono tre, cioè messer Marcantonio Cornaro, messer Giacomo da Canal, e Messer Marino Giustiniani.

Vol. VII.

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Alli quattro del mese, si lessero lettere del provveditore in campo, messer Paolo Nani, che significava : come, eseguendo l'ordine del Senato, aveva data licenza al conte di Caiaccio e provveduto diligentemente che nel suo partire egli non facesse qualche novità e danno per dove passasse colla compagnia; che il conte aveva dimostrato in vista che non si curava gran fatto del commiato, e aveva detto di venire alla illustrissima Signoria per giustificarsi dell'opposizioni.

Dall' oratore a Firenze furono avvisi, che l'animo di ognuno era più pronto che mai fosse stato di conservar la libertà: ch' erano stati eletti cento dei primarii, quaranta dei quali fossero obbligati d' imprestare ducati mille per uno, e sessanta ducati cinquecento, per ajutare la patria contro i nemici.

Da Ferrara si ebbe, come il pontefice e l'imperatore avevano fatto intendere al duca, che non solamente da loro era stato risolto che Modena e Rubiera fossero restituite alla Chiesa, ma che Ferrara ancora fosse della giurisdizione di quella; per il che il duca era travagliato assai, ma che sperava d'acconciare con danari le sue differenze (1).

In questo giorno, quattro del mese, li Savi del Consiglio, eccetto l'Emo, proposero, che non essendo conveniente che l'oratore Marcantonio Veniero, che si trovava presso il duca di Ferrara, si dovesse partire di lì per andare all' imperatore, perciò fosse creato un altro in suo luogo ad esso imperatore, colla pena della legge contro i rifiutanti e con salario di ducati centocinquanta al mese.

(1) Il duca di Ferrara andò due mesi dopo con salvacondotto a Bologna per acconciare le sue differenze col papa, il quale ne fece un compromesso nell' imperatore. Intorno alla promulgazione del compromesso vedi il Doc. CCCXXXII. fra quelli di storia italiana pubblicati dal Molini, vol, II pag. 295; e il Varchi e il Giovio, intorno ai più secreti concerti e alla sentenza imperiale.

Leonardo Emo volle la parte con giunta del salario sino alla somma di cento e ottanta ducati d'oro; i Savi di Terraferma volevano la stessa parte senza la condizione della pena. Lette queste opinioni e non disputate da quelli di Collegio, messer Marco Foscari, uno della giunta del Senato, parlò in favore dell' opinione dei Savi di Terraferma, tenendo per conclusione, che questi tempi non ricercavano di metter pena all' oratore che si aveva ad eleggere; perciocchè non si doveva mandare alcuno che andasse sforzatamente, non potendo la Repubblica essere ben servita da chi la serve contro sua voglia; oltrechè la diversità dei tempi ricercava diversità di elezione; ai tempi di guerra si eleggevano oratori a teste coronate colla giunta della pena; a questi tempi, ch' erano di pace, si dovevano eleggere tali che andassero per volontà e non per forza: ai tempi di guerra si erano fatti oratori dei primarii gentiluomini della Terra: ai tempi di pace si dovevano eleggere eziandio delli altri, per esercitarli e per accrescere il numero di chi sapeva ben servirla. « E quantunque io sappia (disse il Foscari) che il ragionare di sè non è lecito in alcun tempo nè in alcun luogo, se non quando il tacere possa portar danno alla Repubblica, come avverrebbe al presente, affermerò che questo carico è maggiore di quello ch' io merito e di quello ch' io voglio; tanto più che già è fama presso l'imperatore ch' io per fare l'ufficio mio, quando ero oratore in corte di Roma, aveva fatto diversi mali ufficii contro di lui; e perciò sono certo che la persona mia gli sarebbe ingratissima, e per conseguente di danno alla Signoria; giacchè Sua Maestà terrebbe sempre più a memoria i disturbi ricevuti dalla persona particolare dell'oratore, che la scusa d'essere stato obbediente ai comandi della Repubblica. Ora, parlando io con ogni riverenza, consiglierei, che si dovessero eleggere non uno ma due oratori a Sua Maestà; il primo avesse carico di accompagnarla per

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