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del contestabile le rovine del re, era necessario l'accordo, come manco male, fu il primo (così esortato da quei signori) che dicesse al papa senza rispetto che, ritrovandosi nei termini in cui si trovava era necessario di accordarsi cogli imperiali, con quelle più oneste condizioni che poteva; mostrando anche la medesima necessità ai Francesi.

E perchè le azioni importanti che succedono al mondo (tra le quali all'età nostra è stata questa guerra, che ha messo ogni cosa in gran travaglio) danno alcuni documenti, che sono poi i frutti di chi tratta e maneggia gli affari, credo che non possa essere se non a proposito il trarre alcune conclusioni dai successi della mia legazione. E prima, che non si debbono mai torre le guerre, se non si hanno preparate le forze. E il pontefice tolse la guerra col re Filippo senza aver preparato nè danari, nè capitani, nè amici, nè aiuti, e con speranze che poi gli sono riuscite vane. La seconda è, che tutte le leghe hanno molte difficoltà; perchè sono varii i disegni, e volendo attendere ciascun collegato al beneficio suo particolare, non prima sono sottoscritte e fermate le capitolazioni, che nascono delle difficoltà; e a questo modo si perdettero molte occasioni di offendere l'inimico; oltrechè non essendo realmente in essere la gente dalle parti promessa, o non la potendo pagare a tempo, o essendo divisi i pareri dei capi, che l'uno non vuol cedere all'altro; si dà tempo al nemico, e s'incomincia a perdere la riputazione, che in tutte le cose importa tanto. Appena fu conclusa la lega tra il papa, il re di Francia e il duca di Ferrara, che quelli del papa dicevano: che dai Francesi erano state promesse maggiori cose; che se erano venuti in Italia, vi erano venuti per benefizio loro e per i loro disegni. All'incontro anco i Francesi dicevano: che delle cose promesse non se ne attendeva pur una; che non v'era danari, nè gente, nè alcuna cosa necessaria alla guerra. Instava il duca di Ferrara per pagamenti della sua provvisione, e a Roma, non solamente

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non si pensava di pagargliela, ma di servirsi di gran quan: tità di danari da lui. Volevano i Francesi la impresa dello

stato di Milano e di Toscana; il duca di Ferrara quella contro lo stato dei Farnesi; il papa quella del regno di Napoli; e al fine si elesse il peggio. Appresso si può avvertire, che chi non piglia le occasioni, sia nella guerra, sia nella pace, si pente, e fa poi con disavantaggio quello che 1 poteva fare con riputazione. Se nel passare dell'esercito francese si tentava l'impresa di Milano, molte cose succedevano felicemente; perduta quell'occasione, si perdette molto. Poteva il pontefice fare la pace con onorate condizioni, quasi ricercato da tutti i principi d'Italia e dal medesimo re Filippo, ed insieme poteva ingrandire casa sua con lo stato di Siena che gli era offerto; si è perduta quella occasione, e seguitò il pentimento, e si è conclusa poi la pace con le condizioni che sa la Serenità Vostra. Ho anche potuto imparare, che i consigli degli appassionati si debbono fuggire; perchè non hanno per fine loro il beneficio del principe, ma l'utile loro particolare. Disegnavano monsignor della Casa e l'Aldobrandini di vendicarsi del duca di Fiorenza, e d'introdurre nella patria loro una inane specie di libertà. Similmente il Bozzuto, fuoruscito, disegnava la ricuperazione del regno di Napoli; non considerando nè gli uni nè l'altro, con che forze, e che non avevano altro fondamento se non in speranze vane di aiuti esterni e di rivoluzioni di popoli, delle quali, quando l'uomo viene a far prova, si trova ingannato; e però è cosa da prudente il far fondamento sopra quello che si ha e che si può, non sopra quello che si spera e si disegna. Ho notato di più, che un papa, e massime della natura del presente, rarissime volte ode la verità; e gli adulatori hanno luogo, in tanto che gli altri sono odiati. Quelli che si sforzavano di persuadere la pace al papa (che erano tutti uomini buoni e giudiziosi) e gli mostravano la perdita certa dello stato e della reputazione,

congiunta colla rovina di molti, non erano uditi, anzi si acquistavano odio. In questi due errori, l'uno di accostarsi ai consigli di persone appassionate, l'altro di non udir volentieri chi dice la verità, non incorre questo felicissimo ed illustrissimo Stato. Chi consiglia la Serenità Vostra, deposto ogni particolare rispetto, mira alla grandezza pubblica; chi parla nei Consigli, non ha rispetto alcuno di dir quel che sente; e le SS. VV. EE. udendo ognuno con molta pazienza e modestia, ed eleggendo quello che loro par meglio, invitano tutti a parlare secondo la propria opinione, sempre però coll'occhio intento al pubblico beneficio. Si può anche fare un'altra conclusione: che le amicizie e le inimicizie non durano sempre; avendosi veduto il pontefice, in fatti e in parole, per tanti anni della sua vita e ultimamente nel suo pontificato, nemico e persecutore dell'imperatore, del re Filippo, del duca d'Alva e di tutta la nazione spagnuola; conclusa la pace, parlar di loro onoratissimamente e con molta lor lode: e però, per giudizio mio, sarà sempre prudente il parlare dei principi nemici, come di quelli che si possono fare amici, e degli amici,come di quelli che possono diventare inimici; il che, se fu dato per precetto da alcuni uomini savi nelle particolari instituzioni d'un uomo civile, maggiormente si deve osservare nei principi grandi, i detti e i fatti dei quali sono sempre palesi. Si può appresso notare, che le guerre tolte inconsideratamente ingrandiscono quelli che si disegna di abbassare. Pensò il papa co' suoi di abbassare il re Filippo, Marcantonio Colonna, il duca di Firenze e casa Farnese; la guerra li ha ingranditi tutti. Se il re Filippo, nel principio del suo regno, fosse stato alle tregue dei cinque anni, fatte con tanto suo disavantaggio, non avrebbe avute quelle onorate vittorie che ha avute. Al signor Marcantonio Colonna questa guerra ha dato riputazione; perchè, oltre la condizione della casa, si può sperare che possa essere uno dei primi uomini d'Italia; che inanzi questa occasione, non

era così conosciuto. La casa Farnese ha avuto Piacenza, il duca di Firenze lo stato di Siena; l'acquisto del quale è stato di grandissima importanza alla grandezza sua e al tener quasi il freno ai pontefici.

Ho anche notato: che bisogna considerare l'inimico potente, com'è, e forse più; sè stesso e i collegati, più deboli. Si credeva che un papa, un re di Francia, un duca di Ferrara congiunti insieme, potessero fare gran cose; e non si pensava, che si avesse per nemico un re di Spagna e d'Inghilterra, duca di Milano e re di Napoli, padrone dei Paesi Bassi; e finalmente uno che per difesa avrebbe sempre aiuti dal serenissimo allora Re dei Romani, suo zio; e che nel principio de' suoi regni sarebbe aiutato straordinariamente da tutti. Ho compreso di più: che i pontefici possono fare molte cose, che in loro vengono sopportate o dissimulate; ogn'altro principe, che avesse perduto quanto ha perduto il papa, non solamente non l'avrebbe ricuperato così facilmente con una pace, quando esso ha voluto, ma avrebbe perduto anche il resto. Ma, per la verità, quello che si reputa onorato contro gli altri, che è di torre gli stati, contro il pontefice, come capo della nostra religione, pare infame ed atto, oltre all'ira di Dio, a provocarsi l'odio di tutti i cristiani. E spesso dicevano a me alcuni spagnuoli: che conoscevano di far guerra col fumo, col quale potevano perdere assai, sicuri di non guadagnare nè di acquistar cosa alcuna. Le quali considerazioni cadevano molto più nel duca d' Alva, signore (per quanto tutti affermano) molto divoto e religioso; al che lo infiammò anche più il cardinal Sangiacomo, suo zio, quando, dopo la tregua di quaranta giorni, fu a vederlo e gli disse: << figliuol mio, avete fatto bene a non entrare in Roma, come so che avete potuto; e vi esorto che non lo facciate mai; perchè, tutti quelli della nostra nazione che si trovarono all'ultimo sacco, sono capitati male ».

Mi sono finalmente confirmato in opinione, Serenissimo

Principe, che le guerre siano sempre da fuggire, come quelle che portano molti incomodi; e seppur si hanno da fare, farle per necessità e lontane da casa; perchè nel vostro stato gli amici e soldati fanno peggio che non fanno i nemici, nè vi si può rimediare. Rubavano i Guasconi senza rispetto, violavano l'onore delle donne, usavano ogni sorta d'insolenze, erano insopportabili con tutti; e nientedimanco erano tollerati. Quei pochi tedeschi che vennero di Montalcino, erano tutti luterani, che davano palesemente delle pugnalate alle imagini di Nostro Signore Gesù Cristo, che si ridevano delle messe, che mangiavano carne i giorni proibiti; e non solamente non erano gastigati, ma neppure ripresi. Lo sapeva il Pontefice; quel Pontefice, che per ciascuna di queste cose che fosse cascata in un processo, avrebbe condannato ognuno alla morte ed al fuoco, le tollerava in questi, come in suoi difensori; il che dava occasione di grande scandolo a chi le vedeva e conosceva. E certo, che lo spavento che si ebbe dei nemici è stato grande, ma più continuo era quello, che un giorno Roma fosse saccheggiata dai suoi medesimi difensori. Era cosa orribile il vedere per molte notti tenersi lumi accesi in tutte le case, per timore di quelli di fuora e di quelli di dentro. Da questo nasceva tanto mala sodisfazione in tutta la città di Roma, che, chi desiderava la morte al papa ed a'suoi, chi bramava che il duca d'Alva venisse inanzi ed entrasse in Roma; e fu parlato tra i cittadini romani di far patti, venendo esso duca, e di aprirgli le porte: di che, il papa, oltre che li chiamò degeneri da quello antico sangue e valore romano, ne prese tanto sdegno, che appena guardava i suoi cento cavalieri (1); il qual numero era ridotto a così pochi, che due o tre soli comparivano.

E perchè si desidera da chi ritorna da una legazione

(1) Poco dopo l'assunzione di Paolo IV al pontificato, cento nobili romani proposero spontaneamente di servire in Roma, senza stipendio, al pontefice. Questa guardia d'onore, detta dei Cavalieri, avea le sue regole e i suoi statuti particolari.

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