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ORAZIONE

DI NICCOLÒ DA PONTE

SAVIO DEL CONSIGLIO

DETTA NEL SENATO VENETO, SOPRA LO SCRIVERE A ROMA PER PROCURARE LA PACE FRA IL PONTEFICE E IL RE DI SPAGNA, AI 15 DI NOVEMBRE 1556.

Le occorrenze dei tempi presenti, serenissimo principe, illustrissimi ed eccellentissimi signori, sono importanti e difficili; perchè si vede attaccata una guerra e appiccato un fuoco in Italia, che la travaglierà tutta. Il duca d' Alva armato entrò nello Stato della Chiesa; occupò diverse città; va ingrossando l'esercito di giorno in giorno, e tiene assediata Roma. Il duca di Fiorenza sta sopra gli apparecchi d'arme, dubitando di perder lo Stato. Dall' altra parte si sentono i moti di guerra che fa il re di Francia per aiutare il papa. Fa calare in Piemonte diecimila francesi, novemila svizzeri, mille uomini d'arme, e gran numero di cavalli leggieri, che marciano. Ha spedito di Francia molti personaggi in Italia: monsignor di Guisa, monsignor d' Omala, monsignor di Nemurs, il maresciallo Brisac, e quello di Sant' Andrea con gran parte della nobiltà di Francia. Il duca di Ferrara si mette ad ordine, e fa gente e cavalli per mostrarsi potente e gagliardo: talmentechè, fra pochi giorni, l'Italia sarà tutta in arme. Si vede

che lo Stato della Chiesa è per diventare come il Piemonte: perchè una parte ora è presa dal duca d'Alva, come ho detto; e l'altra va ed andrà ogni giorno in man dei Francesi, che ora tengono Civitavecchia, Orbetello ed altri forti per difesa; e così saranno posti dal papa nelle altre fortezze della Chiesa, acciò le difendano. Questi poi le vorranno tenere per i crediti dei danari che avranno sborsati nella guerra a difesa del pontefice; sicchè egli resterà senza stato, come il duca di Savoia, il quale era padrone del Piemonte ed or n'è privato, chè parte n'ha il re di Spagna e parte il re di Francia; e così sarà (che Dio nol voglia) dello Stato della Chiesa, che potrebbe dividersi tra queste Maestà. La qual cosa quanto importi agli stati d'Italia e principalmente al nostro, non è alcuno che non l'intenda; perchè è vero il proverbio:

« Nam tua res agitur, paries cum proximus ardet. »

Chi dubita che la rovina dello Stato della Chiesa non sia certo pericolo a quello della Serenità Vostra, al quale non vedesi alcun rimedio, per opinione mia, salvo che nella pace? La quale, sebbene questi principi dimostrano di volere, chi sa se la voglion davvero. Vediamo che il re di Francia, parlando del re di Spagna, dice, e forse il vero, ch'egli ha il fiele nel cuore e il miel nella bocca; dice colla bocca una cosa e colle mani opera un' altra; dice a parole di voler pace col papa, e ogni giorno coi fatti gli occupa le città, gli assedia Roma, e gli fa ogni oltraggio. Chi sa che il re di Francia non sia per fare lo stesso? Egli dice alla Serenità Vostra e si fa intendere a tutti, che desidera e vuole aiutare il papa; gli manda gente francese, leva svizzeri, spedisce capi, personaggi e gran numero della nobiltà di Francia in suo aiuto. Chi fa certe le Signorie Vostre, che, dopo aver difeso il pontefice ed essersi a questo fine impa

dronito delle fortezze della Chiesa, finalmente non dica: « Beatissimo Padre, io ho speso tant' oro, debbo aver tanto; non è dovere ch' io lasci le fortezze, se non sodisfatto? Ho sentito nelle lettere da Roma, degli undici novembre presente, che il cardinal Caraffa disse al cardinal Santafiore: «< i Francesi ne vogliono spogliare fino alla camicia ». Chi sa che il papa, da necessità o da volontà costretto, non gliele conceda e lasci? È egli da credere, è verosimile, che il re di Francia, fatto padrone di esse e tenendole in mano, le vorrà rendere; vedendosi così grosso creditore di quelle, e il pontefice così vecchio e decrepito, che non può vivere lungo tempo, e non sapendo chi gli sarà successore? E però è vero, che le occorrenze dei tempi presenti sono grandi e importanti, che la materia e le cose che vanno attorno sono difficili e dubbie; perchè si ha da fare con principi, che non procedono lealmente, dicono colla lingua una cosa, e colle mani ne fanno un' altra; dicono di voler la pace, e fanno guerra e adoprano l'armi. Io son uno di quelli che giudicano e temono assai che la guerra sia per continuare, e che vi sia poco rimedio; perchè si vede che il pontefice, che dovrebbe più degli altri cercare la pace, trattandosi principalmente del suo interesse, non la vuole; e il re Cattolico e il re Cristianissimo, sebbene dicono di volerla, nondimeno si tocca con mano che colla guerra sperano di accrescer lo stato; e pare che la guerra faccia per l'uno e per l' altro. In questa poca speranza di pace è da vedere, se la Serenità Vostra deve continuare negli uffici di essa pace, procurando per quanto si puote, che segua. Dico, per mio poco giudizio, che si deve continuare negli ufficii della pace, finchè ce ne sia una speranza anche minima; perchè non si può far peggio, che disperare di essa e non far altro. In questa cosa, per opinione mia, si deve governarsi per quello che si vede e che si ode estrinsecamente, e che è manifesto ad ognuno, e non per presunzione o per s0

spetto dell'interno dei principi, che Dio solo conosce. Si devono usare i mezzi che ci sono posti dinanzi, e seguire la luce che manda il sole e Dio benedetto, e non stare colle mani alla cintola e dire: parlano e non fanno, vogliono addormentare e rallentare gli altri con parole; ed in questo mezzo impadronirsi dello Stato della Chiesa. Potrebbe essere che questa fosse la intenzione loro, perchè i Spagnuoli sono spagnuoli per natura, e i Francesi adesso si fanno spagnuoli per artificio; ma che cosa si può fare di peggio che non far cosa alcuna? Udire le loro parole, stare a vedere i fatti, e non si muovere e non aprir bocca? Fu scritto per la pace al re di Spagna; fu mandato il segretario Febo Cappello al duca d'Alva per introdurla; il re di Spagna risponde parole grandi, e prega Vostra Serenità che sia giudice. Si sa ch'egli ha scritto al duca in conformità; si sa che il duca disse di voler la pace, e che vuole che Vostra Serenità sia quella che acconci le differenze e i capitoli; ch' egli si contenterà di quanto giudichi che egli faccia. Leggete le parole del re di Spagna, dette all' ambasciator Badoero, nelle sue lettere dei nove di ottobre; quelle del duca d' Alva, nelle lettere dei ventidue dello stesso mese, del segretario solo, che dicono: « piglino quei Signori (parlando della Signoria Vostra) li capitoli che ho proposto, intendano le ragioni, e acconcino al loro modo ». Leggete le lettere del detto segretario solo, dei due di novembre, quando il duca d' Alva gli disse: essere necessario un mezzo di far la pace, e non ve n'esser migliore che Vostra Serenità, e che altramente non si farà cosa buona, non vi si potendo interporre il re Cristianissimo; e soggiungendo in un altro luogo delle lettere: « se la Illustrissima Signoria avrà ben considerato, troverà che ella sola può accomodare le differenze ». Si hanno avute queste medesime parole dal papa e da' suoi nepoti. Il pontefice disse, al principio che il segretario andò al duca d' Alva: « rimettasi il duca nella Signoria oggi, che io mi rimetterò do

mani ». Il cardinale Caraffa, in lettere dei tre novembre, dice, parlando dei regii: « si ritirino e partano, e delle differenze si potranno far arbitri gli amici »; e per questi, dice che intende la Signoria di Venezia. Questo istesso cardinale, per lo avanti, in lettere dei dodici ottobre, dell' oratore e segretario insieme, dice: « a che giovano tante parole? se il duca d' Alva si rimetterà nella Illustrissima Signoria, sono certo che il papa si contenterà; e stiasi a quello che sarà per decidere quella Repubblica ». Se dunque si hanno queste parole, così dai regii come dai pontificii, perchè non si deve continuare in proposito della pace? Perchè si dev' egli disperare di non poterla fare, o almeno disporre che si faccia? Non si può far peggio che non far altro; si deve operare quello che si può, non foss' altro che per giustificarsi appresso i principi del mondo, i quali non possano dire: i Signori Veneziani hanno avuto in loro balìa il poter fare la pace tra il pontefice e il re cattolico, e non l' hanno pure tentata !

Tutti i Savi del Collegio sono d'accordo di non levare ancora da Roma il Segretario; ma una parte sente di fare ufficio generale per la pace, e poi licenziarlo che ritorni a casa; l'altra parte sente di discendere al particolare, di ragionare col cardinal Caraffa o coll' istesso duca di Palliano, e di coadiuvare l'abboccamento che si tratta di fare; di mettere inanzi i beneficii della pace pubblici e privati, l'onore e l'esaltazione della persona e della casa loro, appresso tutto il mondo, se saranno autori di tanto bene; far loro intendere che, colla trattazione e negozio, si potrebbe sperare che lo stato di Palliano rimanesse al pontefice; e si consigliano a fare che il pontefice lo sappia, ed essendo di sua sodisfazione, ordinare che il Segretario ritorni al duca d'Alva, e consigli Sua Eccellenza a lasciarlo liberamente al pontefice; considerando che è cosa minima, in comparazione del male e della rovina della guerra. Questa opi

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