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Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita

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Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna 170
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.

XXVI.

CANTO NOTTURNO

DI UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA.

[Ottobre 1826- maggio 1830.]

12

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi,

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli ?

5

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non ispera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a voi? dimmi: ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?

Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

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20

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

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Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,

Ov' ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica,

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Ed è rischio di morte il nascimento. 40
Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,

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L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell' umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perchè dare al sole,

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Qualche bene o contento

Avrà fors' altri; a me la vita è male.

O greggia mia che posi, oh te beata, 105 Che la miseria tua, credo, non sai!

Quanta invidia ti porto!

Non sol perchè d'affanno
Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perchè giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe
Tu se'queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

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Si che, sedendo, più che mai son lunge 120 Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, nè di ciò sol mi laguo.

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Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perchè giacendo

A bell'agio, ozioso,

S'appaga ogni animale;

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Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? 13

Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

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Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.

XXVII.

LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA.

[Dec. 1828 maggio 1830.]

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina,

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