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È quella tomba cui di pianto onora
L'alma terra nativa. Ecco alla vaga
Tua spoglia intorno la romulea prole
Di nova ira sfavilla. Ecco di polve
Lorda il tiranno i crini;

E libertade avvampa

Gli obbliviosi petti; e nella doma

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Terra il marte latino arduo s'accampa

Dal buio polo ai torridi confini.

Così l'eterna Roma

In duri ozi sepolta

Femmineo fato avviva un'altra volta.

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XVI.

A UN VINCITORE NEL PALLONE.

[1821-22.]

Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,

E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s' alla veloce

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Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella

Oggi la patria cara

Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona

Non colorò la destra

Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Nè la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse

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Tal che le greche insegne e il greco acciaro Guidò de' Medi fuggitivi e stanchi

Nelle pallide torme; onde sonaro

Di sconsolato grido

L'alto sen dell' Eufrate e il servo lido.

Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa

Le riposte faville? e che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva

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Il caduco fervor? Le meste rote

Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre de' mortali? ed è men vano
Della menzogna il vero? A nci di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi

Mutò la gente i gloriosi studi.

Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli

Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese

Dal rimembrar delle passate imprese.

Alla patria infelice, o buon garzone, Sopravviver ti doglia.

Chiaro per lei stato saresti allora

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Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? solo a spregiarla: 60
Beata allor che ne' perigli avvolta,

Se stessa obblia, nè delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede

Spinto al varco leteo, più grata riede. 65

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L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio de' barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,

A spezzar le romane inclite mura

Leopardi.

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Chiama i gotici brandi;

Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,

E di feroci note

Invan la sonnolenta aura percote.

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Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve

Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice

A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.

Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando

Il tuon rapido spingi,

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Ne'giusti e pii la sacra fiamma stringi? 30
Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi

Schiavi di morte: e se a cessar non vale

(

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