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della mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia 1. E certo molte volte non potendo lagrimare nè disfogare la mia tristizia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori delli miei occhi per la sua vista. E però mi venne anche volontade di dire parole, parlando a lei; e dissi 2:

Questo sonetto è chiaro; perciò non si divide.

Color d'amore, e di pietà sembianti,
Non preser mai così mirabilmente
Viso di donna, per veder sovente
Occhi gentili e dolorosi pianti,
Come lo vostro, qualora davanti
Vedetevi la mia labbia dolente;

Sì che per voi mi vien cosa alla mente,
Ch'io temo forte non lo cor si schianti.
Io non posso tener gli occhi distrutti
Che non riguardin voi spesse fïate 3,
Pel desiderio di pianger ch'egli hanno:

E voi crescete sì lor volontate,

Che della voglia si consuman tutti;

Ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.

1 Seguo la lezione del D'Ancona. Il Torri, il Fraticelli, il Giuliani e gli editori Pesaresi leggono: che di simile colore mi si mostrava. 2 Qui i due punti ed il verbo senza oggetto, col distacco causato dalla nota non istarebbero troppo bene; d'altro canto però il dissi non possiamo qui arbitrariamente sopprimerlo. 3 Trovasi anche: molte fiate.

§ XXXVIII.

Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla, onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore 1, ed aveamene per vile assai; e più volte bestemmiava la vanità degli occhi miei, e dicea loro nel mio pensiero: Or voi solevate far piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira, e che non mira voi se non in quanto le pesa della gloriosa donna di cui pianger solete; ma quanto far potete; fate; chè io la vi rimembrerò molto spesso, maledetti occhi: che mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime esser ristate 2. E quando fra me medesimo così avea detto alli miei occhi, e li sospiri m'assaliano grandissimi ed angosciosi. Ed acciò che questa battaglia, che io aveva meco, non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia, proposi di fare un sonetto, e di comprendere in esso questa orribile condizione, e dissi questo che comincia: L'amaro lagrimar.

Il sonetto ha due parti: nella prima parlo agli occhi miei siccome parlava lo mio core in me medesimo; nella

1 Gli editori Pesaresi, il Fraticelli ed il Giuliani tralasciano le parole: nel mio cuore, le quali trovansi in tutti i codici. 2 L'edizione Pesarese ed il Fraticelli leggono aver ristato.

seconda rimovo alcuna dubitazione, manifestando chi è che così parla; e comincia questa parte quivi: Così dice. Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sarebbe indarno, perchè è manifesto per la precedente ragione.

L'amaro lagrimar che voi faceste,
Occhi miei, così lunga stagione

Faceva lagrimar 2 l'altre persone
Della pietate, come voi vedeste.
Ora mi par che voi l'obliereste,

S'io fossi dal mio lato sì fellone
Ch'io non ven disturbassi ogni cagione,
Membrandovi colei, cui voi piangeste.

La vostra vanità mi fa pensare,

E spaventami sì, ch'io temo forte
Del viso d'una donna che vi mira 3.

Voi non dovreste mai, se non per morte,
La nostra donna, ch'è morta, obliare:
Così dice il mio core, e poi sospira.

1 Il codice Cas. d. V, 5, legge: Occhi miei lassi. 2 Il D'Ancona difende molto bene la lezione lagrimar, contro meravigliar. Aggiungo che essa trovasi anche nei due codici Barb. XLV, 47, e XLV, 130. 3 Come ben osserva il D'Ancona, la lezione più ragionevole è vi mira, e non mi mira, quantunque questa trovisi anche in alcuni codici, compreso l'antico Barb. XLV, 47.

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§ XXXIX.

Recommi la vista di questa donna in sì nova condizione, che molte volte ne pensava come di persona che troppo mi piacesse ; e pensava di lei così: Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, ed apparita forse per volontà d'Amore, acciò che la mia vita si riposi. E molte volte pensava più amorosamente, tanto che il core consentiva in lui, cioè nel suo ragionare. E quando avea consentito ciò, io mi ripensava siccome dalla ragione mosso, e dicea fra me medesimo: Deh che pensiero è questo, che in così vile modo mi vuol consolare, e non mi lascia quasi altro pensare! Poi si rilevava un altro pensiero, e dicea: Or che tu se' stato in tanta tribolazione d'Amore, perchè non vuoi tu ritrarti da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento, che ne reca li desiri d'Amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte, com'è quella degli occhi della donna, che tanto pietosa ti s'è mostrata. Ond' io avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de' pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto il quale comincia: Gentil

1 È questa, e non mio ragionare la lezione dei codici, quindi la preferisco.

pensiero. E 1 dico gentile in quanto ragionava di gentil donna, che per altro era vilissimo. E fo in questo sonetto due parti di me, secondo che li miei pensieri erano in due divisi. L'una parte chiamo cuore, cioè l'appetito; l'altra chiamo anima, cioè la ragione; e dico come l'uno dice all'altro. E che degno sia di chiamare l'appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro, a cui mi piace che ciò sia aperto. Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contro a quella degli occhi, e ciò pare contrario di quel ch' io dico nel presente; e però dico, che anche ivi il cuore intendo per l'appetito, però che maggior desiderio era il mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito ne avessi già, ma leggier parea; onde appare che l'uno detto non è contrario all'altro.

Questo sonetto ha tre parti: nella prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; nella seconda dico come l'anima, cioè la ragione, dice al cuore, cioè all'appetito; nella terza dico come le risponde. La seconda parte comincia quivi: L'anima dice; la terza quivi: Ei le risponde.

Gentil pensiero, che parla di vui,

Sen viene a dimorar meco sovente,

1 Fo continuare il testo fino a contrario all'altro, perchè così hanno i manoscritti dai quali non so per qual ragione mi debba allontanare.

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