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La mattina seguente il nostro ambasciatore andò a visitazione di Sua Maestà; la quale trovata in camera, gli fu detto che aspettasse lì, perchè voleva andare a dir una parola al pontefice; ritornato dal quale, volle ancor prima spedire Antonio da Leva che ivi in camera allora si ritrovava; e licenziato questo, restò solo coll' ambasciatore che fu sforzato dall' imperatore a sedere presso di lui; nè volle mai udirlo se non con la berretta in testa. Qui il nostro oratore tra le altre cose disse: che dalla Repubblica gli era stato commesso che, fatti con Sua Maestà gli ufficii di riverenza e di congratulazione per la prospera e felice venuta sua in Italia, dovesse esporgli che aveva ricevuto dalla Signoria il mandato di trattare e di concludere pace con Sua Maestà e l'informazione delli capitoli che si tratteranno; ma che essendo differenza fra noi e il pontefice per Ravenna e Cervia, le quali esso pontefice non voleva lasciare con ricognizione ogni anno di un censo, questa Repubblica aveva deliberato ricorrere alla giustizia, bontà ed autorità di Sua Maestà Cesarea, la quale supplicavamo si volesse interporre col supremo poter suo ad acconciare questa differenza; della qual cosa la era per avergli perpetua obbligazione; affermandogli che in ogni tempo e in ogni luogo gli era stata osservantissima, sebbene per li malvagi tempi passati e per li mali modi usati dai nostri ministri, eravamo stati forse giudicati di contrario animo. L'imperatore rispondendo gli disse, che dovesse in nome suo ringraziare l' illustrissima Signoria dell' ufficio fatto seco. Quanto a Ravenna e Cervia, che egli non sapeva chi avesse ragione sopra di quelle; ma che essendo stato spogliato il pontefice da lei, parevagli convenevole che la Signoria lo investisse di nuovo; al che si aggiungeva l' obbligazione che ha con lui di fare che egli sia intieramente soddisfatto. In risposta di ciò l'oratore disse: « Sire, per le parole di Vostra Maestà io dubito certo che la sia stata

male informata di questa cosa; conciossiachè non si troverà mai che l'illustrissima Signoria spogliasse il pontefice delle dette due città; e conseguentemente non si potevano chiamare spoglio nelle nostre mani, come ha detto la Vostra Maestà. Imperocchè il pontefice era prigione nel castello di Roma, quando quelli di Ravenna e quelli di Cervia vennero alla Signoria che la volesse abbracciarli, ricorrendo essi a quella, come a vecchio nido e a madre antiqua. L'illustrissima Signoria dunque, ricordevole delle ragioni che ha da tanti e tanti anni in queste città, inanzi che la Chiesa le possedesse, accettolle come cosa sua, ed ora non altrimenti si persuade tenerle e possederle ». In questa cosa l'oratore si diffuse assai, facendogli intendere particolarmente le nostre ragioni e aggiungendo che Sua Maestà, per alcun patto che avesse col pontefice, non era obbligata di farlo investire di queste terre, non essendo quelle sue nè della Chiesa; e sorridendo gli disse: <«<lo spero, che così come Vostra Maestà tiene ragionando meco le ragioni del pontefice, parimente, parlando col pontefice, difenderà le ragioni dell' illustrissima Signoria, che sono amplissime e verissime ». Rispose l'imperatore: « Dimani si darà principio a trattare la pace ». E circa Ravenna e Cervia non disse altro; e così, tolta licenza da lui, l'oratore si partì. Ai nove di novembre, nel Senato furono lette lettere da Bologna del nostro oratore messer Gasparo Contarini, per le quali scrive: come era stato col vescovo Vasionense, maestro di casa del pontefice (1), ed insieme per lungo spazio avevano discorso la difficoltà di Ravenna e di Cervia; e in fine aveva da lui inteso, che il Pontefice era più fermo e duro che mai di volere al tutto le dette città; talmente che non seguirebbe la pace, senza lo restituire di quelle.

(1) Girolamo Schio, vicentino, vescovo di Vasona nel contado di Avignone, datario e maestro di casa del papa Clemente VII, dal quale fu adoperato con buon esito in molti difficili negozi dentro e fuori d' Italia.

Li Savi grandi e Savi di Terraferma posero parte, e così fu deliberato, di mettere una tassa ovvero gravezza alla città sopra il Monte del sussidio, con dare dieci per cento di dono a quelli che la pagherebbero per tutto il mese presente, e senza dono sino agli otto di decembre; passati i quali termini, non si potesse pagare se non con pena. Il serenissimo Principe, i consiglieri, i capi dei Quaranta, i Savi dell' una e dell' altra mano, messero che si dispensassero per l'amore di Dio a' monasteri di frati poveri e alli spedali d'incurabili e della Pietà, e a monache povere e di osservanza, ducati trecento; la qual parte, sei non la vollero e forse cento e ottanta la deliberarono.

I Savi del consiglio, eccetti il Mocenigo e l' Emo, i Savi di Terraferma, eccetto il Pesaro, e i Savi agli Ordini messero di scrivere all' ambasciatore appresso il pontefice, messer Gasparo Contarini (lodandolo primo del particolare avviso delle cose occorse in Bologna per la entrata di Cesare, dei ragionamenti fatti col pontefice e coll' imperatore) che: avendo inteso la intenzione del pontefice di volere per ogni modo Ravenna e Cervia, e che Cesare gli corrispondeva, dovesse appresentarsi alla Santità Sua e dirle: la illustrissima Signoria, avendo inteso che era animo fermo di Sua Santità di non lasciarci le dette città, ha deliberato che quelle le siano assegnate nella conchiusione della pace. Il Mocenigo e l'Emo volevano la prima parte della lettera; nella seconda commettevano all'oratore, che prima andasse all' imperatore, e assertivamente dovesse dirgli: che in grazia di Sua Maestà, la Repubblica era contenta di assegnare al pontefice le dette città, conclusa che sarà pace; riservandosi le ragioni che in quelle tiene, da essere poi conosciute a più comoda stagione; e di poi dovesse subito andare al pontefice e similmente farlo partecipe di questa deliberazione. Il Pesaro, savio di Terraferma, inanzi che esprimesse la sua opinione, fece leggere nel senato due cose

tenute nascoste nel consiglio dei sino a quel giorno, per deliberazione di detto consiglia prima fu una parte della deposizione di messer Giorgitti, figliuolo del serenissimo principe, fatta in scrittuopo il suo arrivo in Venezia dall' Ungaria, nella quale conteneva che: se nello spazio di giorni quindici il Sir Turco non poteva ottenere Vienna con l'assedio suo, va in animo di ritornare ad invernare a Costantinop ma di lasciare in Ungaria buono aiuto al Vaivoda; laal cosa, ai ventisei d'ottobre passato, quando fu letto nSenato tutto il restante della sua relazione, fu deliber non leggere. La seconda cosa è una lettera di messer paro Contarini indirizzata ai capi del consiglio dei Diecier la quale significa che il pontefice ha qualche speranza e l'imperatore investa dello stato di Milano Alessandrdei Medici suo nipote, e che alcuni cesarei lo invitano gli danno favore. Di poi fece leggere le lettere che propeva al Senato, per le quali si commetteva all' oratore, ch; conciossiachè nell'ultimo ragionamento avuto con Ceare, la Maestà Sua non gli rispondesse altro alla dimana di Ravenna e di Cervia, ma gli dicesse: dimani ti darà principio al maneggio della pace; egli dovesse seguirla e procurare che tal principio si facesse, e si deputassero quelli coi quali si doveva trattarla: che nel maneggio diligentemente osservasse che cosa i cesarei ricercavano dalla Repubblica: che subito desse avviso delle dimande, delle quali non avesse particolare informazione: che nella cosa di Ravenna e di Cervia dovesse dire che: quanto aspetta alla differenza di queste due città, la non sarà mai ale che per conto della illustrissima Signoria possa impedire così salutare effetto, al quale era inclinatissima; e farà conoscere al mondo, che in ogni caso che non succeda, la non sarà stata cagione di questo. I fondamenti ovvero ragioni dei due Savi del consiglio furono questi che dirò di sotto, allegati dal Mocenigo, che

parlò solamente c l'opinione del Collegio; perchè il Pesaro non si avencora lasciato intendere, ma all' improvviso aveva fatggere lo scontro. La prima adunque ragione si fu che,/endo noi trattare con Cesare altre differenze, era uti buon consiglio alla patria gratificarselo, mostrando ch grazia sua queste città si dariano al pontefice, per antaggiarsi poi seco nel maneggio della pace. La seconda,e del pontefice non si doveva avere alcuna fidanza, pøsere persona ambiziosa e di poca fede, che non ha rispetad altro che al proprio bene, e che con maggior veriti potria chiamare eresiarca, che pontefice e capo dei cristianAl Mocenigo rispose il Dandolo, savio del consiglio, e de: che era molto più utile allo Stato il rendere le città aontefice per noi, senza pigliare il mezzo di Cesare; perciocè in quel modo ci spogliavamo delle terre e non ci graficavamo il pontefice; anzi ad un certo modo l'offendevan e cel facevamo nemico, mostrando di non apprezzare la sa persona, ma quella di Cesare; la quale per ciò non estimere be tanto questa dimostrazione, che, nel maneggiar della pace con lui, ci avesse rispetto maggiore che non avendola fatta. Ir questo veramente, sebben parimente restavano privi di Ravenna e di Cervia, nondimeno si acquistava la grazia del pontefce, e l' invitavamo a riconoscere il beneficio e a gratificarsi con noi nelle occasioni che porterà il maneggio della pace li avvenimenti delle cose: che inoltre dovevamo tener per fermo, che l'imperatore poco si cura dell' accrescimento del nostro Stato; anzi per me credo, disse messer Marco, che egli abbia dispiacere della nostra grandezza, la quale volentieri vedrebbe fatta minore, e forse si allegrerebbe se ne vedesse rovinati. Al pontefice veramente, sebbene anch' egli poco si cura del nostro bene, pure fa per lui che in qualche modo siamo; e perciò è più ragionevole gratificar quello che non si duole dell' esser nostro, che quello che si rallegra del nostro male.

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