L. OPIMIO, console.
LIVIO DRUSO, tribuno. M. FULVIO.
UN LIBERTO di Cajo. SENATORI.
La scena è nel Foro e nell' atrio della casa di Gracco, imminente al Foro.
ECCOTI, Cajo, in Roma. lo qui non visto Entrai protetto dalla notte amica. Oh patria mia, fa cor, chè Gracco è teco. Tutto tace dintorno, e in alto sonno Dalle cure del di prendon riposo Gli operosi plebei. Oh buoni, oh veri, Soli Romani! Il vostro sonno è dolce, Perché fatica lo condisce, è puro, Perché rimorso a intorbidar nol viene. Tra il fumo delle mense ebbri frattanto Gavazzano i patrizi, gli assassini Del mio caro fratello; o veramente, Chiusi in congrega tenebrosa, i vili Stan la mia morte macchinando, e ceppi Aila romana libertà; nè sanno Qual tremendo nemico è sopraggiunto. Or basta: salvo io premo la paterna [dre! Soglia. Si, questa è la mia soglia. Oh ma-
Oh mia Licinia! oh figlio! A finir vengo I vostri pianti, e tre gran furie ho meco: Ira di patria oppressa, amor de' miei, E vendetta, la terza; sì, vendetta Della fraterna strage. Entriam. Ma giunge Qualcun. Foss'egli alcun de' nostri.
Servo fedele, ogni timor. Compiemmo Arditamente un' alta impresa: abbiamo Tolto a Roma un tiranno. Alta del pari Mercè n' avrai, la libertà. Ma bada: Sul tuo capo riposa un grande arcano. Non obbliar che dai silenzio tuo La mia fama dipende e la tua vita. Lasciami. - Stolto! alla sua morte ei corre. M'è necessaria la sua testa. Un troppo Terribile segreto ella racchiude: E demenza saria... Ma chi s' appressa? Son tradito. Chi sei che qui t'aggiri, Tenebrose spiando i passi altrui ? Non t'avanzar: chi sei? parla.
Sul lido ti credea. Come ne vieni? Come dunque ritorni?
Fui di Cartago a rialzar le mura. Adempiuto ho il comando ; ed in due lune, Che fur bastanti a rovesciarla appena, Da' fondamenti suoi Cartago è sorta. Incredibile impresa, e minor solo Del mio coraggio, a cui dièr sprone i tuoi Frequenti avvisi, e l'istigar che ratto Qua fosse il mio ritorno. Aver prevalso L'inimico partito, esser del nostro Atterrata la forza, ed in periglio Star le mie leggi e Roma. Io l' opra allora Precipitai, la consumai; veloce Mi parto da Cartago; e, benchè irato Fosse il Tirreno, e minacciosi i venti, Pure al mar mi commisi, ed improvviso Qual folgore qui giungo. Or, quale abbiamo Stato di cose?
Degno di tali mercatanti! Oh Roma! Già madrigna tu vendi i generosi Ai pravi cittadini, e venderai,
Se un giorno trovi il comprator, te stessa. Oh senato, che un di sembrasti al mondo Non d'uomini consiglio, ma di Numi, Ch'altro adesso se' tu che una temuta Illustre tana di ladroni? Io fremo.
Freme ogni vero cittadin. Ma questo Di dolor non è tempo e di sospiri ; Tempo è di fatti.
E li farem. Ma pria Le nostre forze esaminiam. Rispondi : Quanti amici, se amici ha la sventura, Nella fede restår ?
Pochi, ma forti. L'intrepido Carbon già tuo collega Nelle agrarie contese; e Rubrio e Muzio Animosi plebei, possente ognuno Nella propria tribù. Vezio v' aggiungi, E Pomponio e Licinio, alme bollenti Di libertà del par che di coraggio. Di me non parlo; mi conosci. Il resto Rapi seco il rotar della fortuna. Ed ecco tutte del tuo gran naufragio Le onorate reliquie. Oh amico! oh quale Mutamento di cose! Fu già tempo Che, di tutto signor, devoti avesti Popoli e regi al cenno tuo. Dinanzi Ti tremava il senato; riverenti Ti fean corona i cittadini; un detto, Uno sguardo di Cajo, un suo saluto, Un suo sorriso li facea superbi. Ambía ciascuno di chiamarsi amico, Cliente, schiavo di questo felice Idolo della plebe ; e nel vederli Si prostrati, tu stesso vergognavi Di lor viltà, tu stesso. Al fin tramonta La tua fortuna, ed ecco ir tutte in nebbia Le sue splendide larve, ecco disfatto Questo nume terreno, e dagli altari Gittato nella polve.
E che per questo? Nell'ire sue l'avversa sorte a Gracco Non tolse Gracco. Ho tale un cor nel petto, Che ne' disastri esulta; un cor che gode Lottar col fato, e superarlo. Il fato, Credi, è tremendo, perchè l' uomo è vile; Ed un codardo fu colui che primo Un Dio ne fece. Ma perchè tra' nostri
Ed or da questo or da quel lato spira, E amor di plebe. Ma scusarla è forza. Vien da miseria il suo difetto; e molti Sendo i bisogni, esser dee molta ancora La debolezza. In suo segreto al certo Ella ancor t'ama, e il suo sospir l'invía : Ma il labbro non lo sa. Timidi e muti Sono i sospiri, ed il pallor del volto Solo gli accusa, il susurrar tuo nome Sommessamente, e l'abbassar del ciglio. Ch' uno non già ne due sono i tiranni, Ma quanti in Roma abbiam patrizi, e quanti Opulenti e tribuni. E girne impune Può ben la tirannia. Vedova é Roma Della piu fiera gioventù, chè tutta Fabio la trasse a guerreggiar sul Tago, E i men forti restâr. Quindi smarrito Langue ogni spirto; trepida, abbattuta Geme la plebe; ti desía, ma tace.
lo parlar la farò. Lion che dorme E la plebe romana, e la mia voce Lo sveglierà: vedrai. A tutto io venni Già preparato, e, navigando a Roma, I miei perigli meditai per via. Mormoravano l'onde; inferocito Mugghiava il vento, apriasi in lampi il cie- E tremava il nocchiero. Ed io pensoso Stavami in fondo all' agitato legno, Chiuso nel manto, e con lo sguardo basso In altra assorto più crudel tempesta. Strette intorno al mio cor tenean consiglio Fra lor dell' alma le potenze; e Roma
No, mai La verace amista. Ma, sia qualunque, Rispetto il tuo segreto, e più non chieggo. Dimmi sol, che saperlo assai ne giova, Quale osserva contegno in tanto allare Il mio congiunto Emilian? Che dice?
Emilian?... Perdona, ogni tuo detto È una domanda; e della madre ancora, E della sposa, o Cajo, e del tuo figlio Nulla inchiedesti?
I pensier primi a Roma : Darò i secondi a mia famiglia. Or dunque, D'Emiliano che sperar ? Marito Di mia sorella...
Lo so che la meschina Di tal consorte non è lieta. FULVIO.
E il puote Esser mai donna che plebea si stringe A marito patrizio? Egli l'abborre, E te del pari abborre.
Per la causa miglior. Queste che calchi Son le tue soglie. Attender forse io deggio Che imperversando a violarle venga Il patrizio furor? V' ha forse asilo Sacro per queste avare tigri in toga, Di plebeo sangue sitibonde? Oh figlio! Tu ne stavi lontano ed io tremava; Per me non già: la madre tua, lo sai, Non conosce timor; ma per gli amati Pegni io tremava de' tuoi sacri affetti, Per questa donna del tuo cor, pei giorni Del tuo tenero figlio, in cui mi giova, Se perir devi, assicurarti un qualche Vendicator. Perciò m' ascolta. - In tanta Congiura di malvagi, havvi chi sente Pietà del nostro iniquo stato, un giusto Che, patrizio, detesta de' patrizi Le nere trame, e men porgea l'avviso, E n' offeriva ne' suoi tetti asilo, Sicurezza, silenzio. Io di ciò dunque Sollecita movea, fidando all'ombra Queste vite a te care. Or che presente Tusei, cangiato è il mio consiglio, el' alma Più non mi trema.
Più tacermi non so. - Donna, tu prendi Sconsigliata difesa, e sul tuo labbro Duro è la lode udir d'un cittadino, Grande sì, ma tiranno. A chi fidavi Tu de' Gracchi la vita? Ad uno Scipio? Ed uno Scipio non fu quel che fece Te vedova d'un figlio? Oh degli Scipi Orgogliosa despotica famiglia, D'alme grandi feconda e di tiranni! Oh Cornelia! tu sei famoso seme Di questa schiatta, e tu la plebe adori?
Cajo, chi è questo temerario?
Appella Qual più ti piace il ragionar mio franco; Marco Fulvio son io.
Sei Fulvio, ed osi Voce alzar me presente? E ancor non sai Che ammutir deve ogni ribaldo in faccia Alla madre de' Gracchi? Tu mal scegli, Cajo, gli amici, e d'onor poca hai cura. Di tua sorella, sappilo, costui Insidia la virtù. Quindi la soglia Il tuo cognato gli precluse; e quindi L'altr'ier le stolte sue minacce, ed ora Le ancor più stolte sue calunnie. Oh figlio! Che di comune hai tu con un siffatto Malvagio? Un Gracco con un Fulvio!
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