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tutti e due, consigliando che la espedizione fosse differita, per essere importante, e l'ora tarda.

Alli ventisei di novembre, dopo lette alquante lettere di poca importanza, di nuovo le due opinioni furono proposte al Senato; e in quella dei due Savi entrò messer Francesco Soranzo, Savio di Terraferma. Parlò messer Domenico Trevisano, Savio del Consiglio e cavaliere procuratore, per l'opinione del Collegio e disse: nel mille cinquecento ventitrè la illustrissima Signoria concesse per difesa del duca di Milano e del regno di Napoli le genti e le galere dichiarate nella sua parte; e perciò gli pareva di non negarle al presente, essendone stata ricercata con tanta istanza dal Gran Cancelliere, da tutti i Cesarei e dal pontefice. Non esservi dubbio, per opinione sua e di tutto il collegio, che Cesare era risolto di volere al tutto questa lega; perseverando a negare la quale, generavamo nel suo pensiero sospizione di alcuna intelligenza colla Francia: che, essendo vero che per questa differenza delle quindici galere a difesa del Regno, solamente contro principi cristiani, non si doveva impedire la pace, faceva più per la Signoria l' assentire in una fiata a tutte due le richieste, che ora ad una e, passato qualche giorno, all' altra. Conciossiachè, facendosi a questo modo, sarebbe un dare argomento ai negoziatori cesarei di domandarci ogni giorno cose nuove, e speranza di ottenerle, vedendoci sul principio delle loro richieste, negar loro una cosa e poi in fine concederla; sicchè questa opinione contraria dava loro attacco di richiederci molte cose, di sperar di ottenerle, e che in fine discendessimo alle voglie loro.-Kispose messer Marco Dandolo, Savio del Consiglio: che la lega è sempre semenza e principio di guerra; che il dar quindici galere per la difesa di Napoli metteva in sospetto il Turco che fossimo accordati contro di lui; nè ci valerebbe allora, se si dicesse: queste quindici galere si danno all' imperatore contro i cristiani

soli, perciocchè il Turco nol crederebbe; al quale si doveva avere gran rispetto e dirizzare la mira del governo a non dispiacergli, e ad aver per oggetto principale la conservazione dell' amicizia sua. Onde egli era d'opinione di non far menzione di lega nè di promettere le quindici galere; ma si provederebbe di compiacere a Cesare colla promessa della difesa dello stato di Milano; che l'imperatore aveva gelosia solamente dello stato predetto, e che, quando fosse sicuro di esso, non temerebbe del reame di Napoli.

Risposegli messer Alvise Mocenigo, Savio del Consiglio, per la opinione del collegio, facendo questo esordio. << Appresso i pittori antichi fu costume, che alle figure di Apelle, eccellentissimo pittore, nessuno ardisse por mano; perchè era certa opinione che niuna cosa si potesse aggiungere a quelle da altro pittore, per valente che fosse. Sebbene si dovesse osservare questo stesso costume ogni volta che il preclarissimo messer Domenico Trevisano parla in Senato, nientedimeno la materia che al presente si tratta è sì abbondante e ripiena di ragioni da ogni canto, che io sono spinto a dirne alquante. E riprese: in ogni tempo che questa Repubblica ha fatto pace coll' imperatore ovvero col re di Francia, colla pace ha congiunto la lega; come per diversi maneggi dei tempi passati è manifesto. Se pare onesto alla Signoria, che l' imperatore assicuri lo stato di Milano per rispetto del duca, molto più è conveniente che faccia sicuro il reame di Napoli per il proprio interesse, essendo quello stato suo; onde pareria cosa nuova, che a sua istanza la Signoria nostra fosse contenta di difendere lo stato altrui; e non volesse pel suo stato particolare prestargli aiuto. Le quindici galere che si vuol dargli non sariano bastanti contro Barbarossa corsaro, (1) non che contro la grande potenza del Signor Turco; anzi, vedendo che ci obblighiamo

(1) Intorno a questo famoso pirata del Mediterraneo, vedi la nota (1), pag. 158 del vol. I delle Relazioni Venete.

di aiutare l'imperatore con sì poco numero di galere, comprenderà che è intenzione della Signoria nostra di non essere mai suo nemico; sovvenendo noi Cesare di sì piccolo aiuto, solamente contro i cristiani che in quello stato volessero offenderlo ». Disse alcune altre ragioni simili, ch'io tralascio; motteggiando più volte, che ne voleva guarire dal mal francese; affermando che la Repubblica non si era mai accordata con Francia senza danno e rovina; ma che ora sperava levarci le bollettine che per tal male portavamo d'intorno.

Rispose al Mocenigo messer Girolamo da Pesaro, Savio di Terraferma, per la opinione di Marco Dandolo e di Francesco Soranzo, dicendo: « Ancorchè nelle paci discorse dal clarissimo messer Alvise Mocenigo sia stata inserita la lega, non valevano però questi esempi contra la sua opinione; conciossiachè chi volesse discorrere, ne ritroveria altrettanti e più, per i quali si vedrebbe che la lega congiunta alle paci, aveva interrotto l'unione della Repubblica coi principi cristiani ». E qui similmente connumerò e paci e leghe fatte in diversi tempi con diversi principi, che in fine venuti erano a guerra con noi per rispetto della lega. Poi disse: << Se ora si facesse questa lega e si accettassero questi due capitoli proposti parimente del millecinquecentoventitrè, li Cesarei piglierebbero occasione di farne ogni giorno richiesta, che in essa lega si aggiungano i capi che restano del trattamento del suddetto anno; nei quali vi è quello, che fossimo obbligati di dare aiuto alla casa dei Medici, per conservarle lo stato di Firenze; il che quando si facesse, saria grave maleficio della nostra Repubblica, la quale per naturale inclinazione deve avere in orrore ed odio simile pratica; e tanto più al presente, che i Medici sono fuorusciti da Firenze, nella quale hanno poca speranza di poter più entrare per la fermezza di quelli che vi signoreggiano; i quali si fanno intendere di voler essere paratissimi a

patire ogni incomodo e di facoltà e di vita, sì propria che dei figliuoli, per la conservazione della libertà, che la casa de' Medici, col pontefice loro capo, cerca ogni di più di abbattere colla tirannide ». Dipoi, mandate a scrutinio le opinioni proposte, fu deliberata quella del Collegio, con ballotte più di centoquarantacinque contra quaranta.

Alli ventinove di novembre, nel Senato si lessero lettere dell' oratore da Bologna dei 24, 25 e 26, copiosissime; la somma delle quali, per quanto mi ricordo, fu, che nel trattamento suo coi Cesarei, monsignor di Prato, il Gran Cancelliere, e monsignor di Granvelle (dove fu presente anche il pontefice), l'oratore pigliò occasione di disuadere la lega, che quelli con grande perseveranza sollecitavano, dicendo, che non era necessaria; perciocchè, se Cesare a nostra satisfazione restituiva lo stato di Milano al duca Francesco, non doveva mai dubitare che noi, in caso di bisogno, non facessimo di tutto per conservarlo. Dipoi venne alli capitoli che appartenevano alla Signoria nostra, cominciando dal restante dei ducati duecentomila; e promise che essa li pagherebbe nel modo dichiarato nel maneggio del MDXXIII: cioè, ducati venticinquemila all' anno, principiando questo Natale prossimo venturo; fatta però la restituzione dei nostri luoghi nel Friuli, ingiustamente posseduti da Ferdinando. Quanto ai cinquemila ducati dei fuorusciti, sopra di questi furono assai contese dall' uno e dall' altro canto. Li Cesarei dicevano che, non essendo stati pagati negli anni passati, era convenevole pagarne il danno; e messer Gasparo diceva, che non lo era, inanzi che fosse fatta la detta restituzione. Poi trattarono dell'interesse della presente guerra; per il quale domandando i Cesarei ducati trecentomila, l' oratore si maravigliò e disse: non sapere per qual ragione la illustrissima Signoria dovesse patir danno alcuno, non essendo lei stata cagione della guerra, e avendo per quella patito tanta spesa, e non si trovando avere denari. In questo proposito furono

dette ragioni da ogni canto; ma infine fu deliberato, che messer Gasparo dovesse andar a parlare a Cesare di questa differenza nella mattina seguente; e così fu messo termine ai ragionamenti di quel giorno.

Scrive dipoi l'oratore, che l'ambasciatore del duca di Urbino gli aveva detto, come messer Jacopo Salviati si era doluto della durezza della Signoria, che non voleva la lega; e dubitava di male che perciò ne avesse a venire, dicendo: se la Signoria sapesse ciò che si trama, starebbe con non picciolo fastidio; ed accennò che il re di Francia sotto mano faceva ogni partito a Cesare, purchè ottenesse lo stato di Milano; nè aveva rispetto di offrirgli quello che altri possedevano.

Poi, per altre lettere, scrive l' oratore, che insieme col Veniero, ambasciatore al duca di Milano, e con tutti gli altri gentiluomini veneziani ch' ivi si ritrovavano, era stato ad un banchetto dato dal marchese di Mantova: che non si era recato da Cesare la mattina seguente, attesa certa solennità del pontefice, alla quale intervenne Sua Maestà. Ma che si era seco abboccato il dopo pranzo; la quale subito entrò a dire che voleva al tutto la lega; perciocchè, se altrimenti si facesse, lo stato di Milano sarebbe occupato o dal re di Francia o dalla Signoria di Venezia o da qualche altro principe; sicchè il duca Francesco ne sarebbe in breve spogliato. Poi venne a trattare gli altri particolari; nel che consumò più d' un'ora e mezza; talmentechè non era possibile lo scrivere tutto quello di cui ragionarono. Fra questi ragionamenti fu quello dell' interesse della guerra presente. L'imperatore disse in prima, che per giustizia la Signoria dovrebbe pagargli ducati trecentomila; ma che si contenterebbe di duecentomila, rimettendosi infine alla discrezione del pontefice, il quale avesse a decidere quanto gli pareva onesto. In questo trattamento messer Gasparo rispose a tutte le cose propostegli da Cesare, affermandogli: che nè pel do

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