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ringo e di metter fine al suo parlare. A lui rispose messer Alvise Mocenigo, Savio del Consiglio, e disse: signori, se comincieremo ora ad assentire alle richieste del duca, saremo molestati a fare lo stesso, quand' egli dovrà pagare in più rate gli ottocentomila scudi all' imperatore; e a questi dispiacerebbe che noi fossimo si compiacenti col duca, e direbbe nelle differenze che ho avuto colla Signoria, ella si volle avvantaggiare di miserie, ed ora non si schifa di dar così prontamente il suo danaro al duca Francesco. Aggiunse, che le ricchezze della nostra terra erano ormai sminuite e quasi ridotte a penuria; che sebbene succedeva la pace, la Repubblica nostra aveva bisogno di ristoro, come infermo che ha maggior bisogno di rimedii dopo il male che avanti; che la fede e promissione del duca di reintegrare l'imprestito alla Signoria, era di poca importanza; anzi che si poteva tener per certo di non riavere più nulla; come si poteva argomentare, per l'esperienza degli altri imprestiti del Senato, ai quali egli non aveva mai sodisfatto. I Savi del Collegio fecero levar la proposta dell'imprestito dei diecimila ducati, e restarono sopra la promessa del sale colla fidejussione del duca.

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Parlò per questa opinione messer Piero Lando, Savio del Consiglio, dimostrando che, oltre all'essere noi debitori di ajutare il duca di Milano per non interromper la pace, era utile alla Repubblica servirlo non solamente di quindicimila ducati dei sali, ma eziandio di maggior somma, quando egli se ne contentasse; perchè si veniva a smerciare il sale, che avevamo da tanto tempo senza beneficio nei magazzini; e insieme ci facevamo grati a colui, per il quale avevamo speso tanti danari, acciò rimanesse in istato. E non era da dire che non ci pagherebbe; perchè, se per i tempi passati pareva ch' egli non avesse atteso alle sue promesse, questo era stato per il travaglio della guerra; cessando la quale, dovevamo credere che non

mancherebbe. Era poi una fantasia il ritrarsi dal soccorrere l'amico per rispetto dell' imperatore che si dorrebbe dei vantaggi cercati seco da noi; chè anzi stimerà servizio, che la Signoria soccorra al duca, perchè sodisfaccia alle promesse ch' egli fece a Sua Maestà. Nè vale il dire: si serve ora il duca di questa somma, e bisognerà sovvenirlo anche al tempo di cadauna delle altre rate; perchè, siccome da un canto nessuno potrebbe astringere a questo la Signoria, sarebbe dal canto del duca discortesia di molestarla ogni anno. Mandata a scrutinio la parte, fu vinta di poche ballotte.

Essendo stata supplicata la Signoria da persona che voleva palesare diversi debitori non descritti sopra i libri pubblici, che le concedesse venti per cento dei denari che si ricupererebbero, fu proposto da tutti i Consiglieri e dai Savi di Collegio, che il Senato l'ascoltasse e le facesse merito secondo la domanda, conseguito che fosse il beneficio pubblico. Messer Marino Giustiniani, Avogador di Comune, contradisse: che, essendo egli Avogadore straordinario, gli erano state fatte simili offerte più volte, e che avendo voluto udirle, si era alla fine persuaso, che tutte erano giunterie di scrivani, i quali si ritrovavano nelle forze della giustizia, e per liberarsi studiavano e machinavano giorno e notte cose nuove con fraude e falsità, a danno di diversi gentiluomini e d'altri; che, dando orecchia a costoro, si apriva la strada ai scrivani di rubar le scritture dei debitori di San Marco, per valersene ai tempi dei loro misfatti: sicchè la parte proposta al Senato era parte cattiva, e solamente di beneficio ai ministri condannati. Gli fu risposto dal serenissimo principe: che, come meritavano gran lode tutti coloro che dicevano francamente le loro opinioni nel Senato e in ogni Consiglio a beneficio della Repubblica, e come molte volte aveva udito assai volentieri messer Marino per le sue buone qualità, così al presente aveva

inteso con dispiacere la mala opinione che aveva. Perchè la parte proposta era ottima, non concedendo altro che udienza a chi voleva manifestare quelli che avevano male amministrato il denaro pubblico: che l'udire e l'intendere i particolari delle cose non fu mai se non bene; e se si conosceva che colui che fa questa domanda abbia rubato scritture pubbliche, ovvero insidiato gentiluomini ed altri di qui, si avrà occasione di castigarlo; e così si farebbe con tutti quelli che si conoscerà usare male strade, ai quali aveva accennato messer Marino: lodando, che si punissero tutti quelli che fanno male, e che si allargasse la via di conoscerli. E la parte fu presa.

In questo giorno venne a Venezia Gianus Beì, ambasciatore del Signor Turco, per rallegrarsi del ritorno di esso a Costantinopoli dall' impresa d' Ungheria. Portò seco diverse lettere, così di messer Alvise Gritti, come del segretario Leopardo, il quale in Belgrado aveva accompagnato l' esercito turchesco e salutato Ibraim per nome della Signoria, comunicandogli le lettere d' avviso dei successi d'Italia, ritenute sino allora per la mala sicurezza delle strade. Le lettere veramente di messer Alvise Gritti erano date in Buda, e narravano la partenza del gran signore da Vienna per Costantinopoli, e che a lui, Gritti, erano state donate due città dal re Giovanni, Vaivoda. Questa venuta di Gianus Bei fu significata a messer Gasparo Contarini, con quanto si aveva di nuovo da quelle parti, degno di saputa.

Alli ventotto di decembre, furono lette lettere da Bologna, sì del Contarini come del Veniero; le quali avvisavano che le differenze del duca di Milano coll' imperatore erano quasi sciolte; e che il duca si lamentava molto della Signoria, che permetteva che le due fortezze del suo stato rimanessero nelle mani di Cesare; si lamentava dell'imperatore, che l'aveva costretto di dargli altri ducentomila ducati, e quattordicimila di entrata, cioè seimila ad Antonio da Leva,

e ottomila al marchese del Guasto, sopra il suo stato. Scrive poi messer Gasparo, che il pontefice richiedeva che la Signoria pagasse l'interesse dei sali di Cervia, goduto per il tempo che aveva tenuto quella città; e che non dovesse più instare di aver le denominazioni dei vescovati, essendo mente di Sua Santità di non concederle, per non sminuire le giurisdizioni della Chiesa, nè di affaticarsi di ottener facoltà di metter gravezza al clero dello stato nostro. E messer Gasparo gli aveva risposto, che Sua Santità non restasse perciò di sigillare la pace; perchè queste differenze, colla bontà e sapienza sua, si acconcierebbero in modo che si renderebbe grata la Signoria. Soggiunge poi, che aveva saputo di sottomano, che il pontefice desiderava che la Repubblica nostra gli mandasse ambasciatori a dargli l'obbedienza, che dopo la sua creazione non gli era stata prestata; colla quale obbedienza sperava che si acconcierebbero queste altre cose. Scrive infine che, col nome dello Spirito Santo, ai ventitrè di questo mese si era conclusa e sigillata la pace e la lega, e assettati diversi garbugli, che erano stati rinnovati dal Gran Cancelliere: che il giorno seguente, i cardinali Cornelio e Pisani, esso oratore e il Veniero, erano andati a congratularsi col pontefice della pace conclusa, e similmente coll' imperatore, per nome della Signoria: che l' imperatore, ringraziando degli uffici fatti, aveva detto di aver avuto molte vittorie, ma di non aver mai avuto da quelle tanta allegrezza, quanta dalla conclusione di questa pace. A queste nuove aggiungeva la descrizione delle cerimonie fatte in chiesa la notte di Natale, alla prima messa; cioè, che, fornito il terzo notturno del mattutino, l' imperatore s'era spogliato una veste che aveva intorno, e rivestitosi sopra il sajo d' un' altra veste di raso cremisino ugnola, sopra di quella posta una cotta, si era cinto una spada dorata, e pigliato sopra la cotta il piviale, e accostatosi al pontefice, gettata sopra la spalla una parte del manto, aveva appuntato in

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terra tre volte la spada nuda e sollevata in aria con gran leggiadria; poi inginocchiato inanzi al pontefice e presa da quello la benedizione, venne dov'era apparecchiato il lettorio, accompagnato da due cardinali; ed incensato il libro, disse con voce assai alta l'Evangelio; cioè quelle poche parole: in illo tempore exiit edictum a Coesare etc.; sino alla particola: et reliqua; alla quale mettendo fine, fu cantata la omelia da uno dei cardinali, che ivi era apparecchiato. L'imperatore tornò al pontefice; si spogliò i vestimenti di chiesa, e ripigliata la prima veste, fu poi celebrata la messa dal pontefice. Al quale, giunto all' offertorio, fu data l'acqua due volte alle mani da due principi che vi assistevano; una altra fiata dal duca di Milano, l'ultima volta dall' imperatore. La mattina seguente fu celebrata dal Pontefice la terza messa, alla quale vi fu eziandio Cesare. Scrive ancora messer Gabriele Veniero, che l' imperatore aveva deputato due gentiluomini spagnuoli, allevati quasi continuamente in Italia, alla guardia delle fortezze di Milano e di Como, sino alla satisfazione dei trecentomila scudi promessi dal duca Francesco; le quali persone erano di grande piacer suo, ed era così allegro per questa pace, che più non potrebbe. Ringraziava senza fine la Signoria degli ufficii usati verso di lui, e voleva personalmente recarsi in questa Terra, per fare verso di lei le debite grazie.

Furono similmente lette più lettere di Francia (le ultime dei tredici di dicembre) le quali avvisavano, che il re era desideroso che la Signoria nostra restituisse le terre di Puglia all' imperatore, acciò più facilmente gli fossero restituiti i figliuoli, che ancora si ritrovavano in man di Cesare: che Sua Maestà, madama Reggente, sua madre, e l'Ammiraglio avevano fatta dimostrazione di allegrezza per l'appuntamento della Signoria con Cesare, col papa, e col duca di Milano in Bologna; e affermavano che seguirebbe a onore e gloria di questa Repubblica, sebbene le forze sue

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