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Quando assai di lontan parve rimpetto
All'esercito alzarsi un nugoletto.

Un nugoletto il qual di mano in mano
Con prestezza mirabile crescea
Tanto che tutto ricoprire il piano
Dover fra poco e intenebrar parea,
Come nebbia talor che di lontano
Fiume o palude in bassa valle crea,
Che per soffio procede, e la sua notte
Campi e villaggi a mano a mano inghiotte.
Conobber facilmente i principali
Quel di che il bianco nugolo era segno,
Che dai passi nascea degli animali
Che venieno avversari al misto regno.
Però tempo ben parve ai generali
Di mostrar la virtù del loro ingegno,
E qui fermato il piè, le ardite schiere
A battaglia ordinàr con gran sapere.
Al lago che di sopra io ricordai,
Ch'or limpido e brillando al chiaro giorno
Spargea del Sol meridiano i rai,
Appoggiar delle squadre il destro corno,
L'altro al poggio che innanzi anco narrai
Alto ed eretto, e quanti erano intorno
Lochi angusti e boscosi ed eminenti
Tutti fero occupar dalle lor genti.

Già per mezzo all' instabil polverio
Si discernea de' granchi il popol duro,
Che quetamente e senza romorio
Nella sua gravità venia sicuro.

Alzi qui la materia il canto mio,
E chiaro il renda se fu prima oscuro;
Qui volentieri invocherei la musa,
Se non che l'invocarla or più non s'usa.
Eran le due falangi a fronte a fronte
Già dispiegate ed a pugnar vicine,
Quando da tutto il pian, da tutto il monte
Diersi a fuggir le genti soricine,

del lampo,

Come non so, ma nè ruscel nè fonte
Balza nè selva al corso lor diè fine.
Fuggirian credo ancor, se i fuggitivi
Tanto tempo il fuggir serbasse vivi.
Fuggiro al par del vento, al par
Fin dove narra la mia storia appresso.
Solo di tutti in sul deserto campo
Rubatocchi restò come cipresso
Diritto, immoto, di cercar suo scampo
Non estimando a cittadin concesso
Dopo l'atto de' suoi, dopo lo scorno
Di che principio ai topi era quel giorno.
In lui rivolta la nemica gente
Senti del braccio suo l'erculea possa.
A salvarla da quel non fu possente
La crosta ancor che dura, ancor che grossa.
Spezzavala cadendo ogni fendente

Di quella spada, e scricchiolar fea l'ossa
E troncava le branche, e di mal viva
E di gelida turba il suol copriva.

Così pugnando sol contro infiniti

Durò finchè il veder non venne manco.

Poi che il Sol fu disceso ad altri liti,
Sentendo il mortal corpo afflitto e stanco,
E di punte acerbissime feriti,

E laceri in più parti il petto e il fianco,
Lo scudo, ove una selva orrida e fitta
D'aste e d'armi diverse era confitta,
Regger più non potendo, ove più folti
Gl' inimici sentia, scagliò lontano.
Storpiati e pesti ne restaron molti,
Altri schiacciati insucidaro il piano.
Poscia gli estremi spiriti raccolti
Pugnando mai non riposò la mano
Finchè densato della notte il velo
Cadde, ma il suo cader non vide il cielo.
Bella virtù, qualor di te s'avvede,
Come per lieto avvenimento esulta
Lo spirto mio; nè da sprezzar ti crede
Se in topi anche sii tu nutrita e culta;
Alla bellezza tua ch' ogni altra eccede,
O nota e chiara, o ti ritrovi occulta,
Sempre si prostra: e non pur vera e salda,
Ma imaginata ancor, di te si scalda.

Ahi! ma dove sei tu? sognata o finta
Sempre? vera nessun giammai ti vide?
O fosti già coi topi a un tempo estinta,
Nè più fra noi la tua beltà sorride?
Ahi se d'allor non fosti invan dipinta,
Ne con Teseo peristi o con Alcide,
Certo d'allora in qua fu ciascun giorno
Più raro il tuo sorriso e meno adorno.

CANTO SESTO.

Meta al fuggir le inviolate schiere
Di Topaia ingombràr le quattro porte,
Non che ferir, potute anco vedere

Non ben le avea dei granchi il popol forte.
Cesar che vide e vinse, al mio parere,
Men formidabil fu di Brancaforte,
Al qual senza veder fu co' suoi fanti
Agevole il fugar tre volte tanti.

Tornata l'oste a' babbi intera e sana,
Se a qualcuno il fuggir non fu mortale,
Chiuse le porte fur della lor tana
Con diligenza alla paura eguale.
E per entrarvi lungamente vana
Stata ogni opra saria d'ogni animale,
Sì che molti anni in questo avria consunto
Brancaforte che là tosto fu giunto,

Se non era che quei che per nefando
Inganno del castello eran signori,
E ch'or più faci al vento sollevando
Sedean lassù nell'alto esploratori,
Visto il popolo attorno ir trepidando
E dentro ritornar quelli di fuori,
Indovinar quel ch'era, e fatti arditi
I serragli sforzàr mal custoditi.

E con sangue e terror corsa la terra
Aprìr le porte alla compagna gente,
Che, qual tigre dal carcer si disserra
O da ramo si scaglia atro serpente,
Precipitaron dentro, e senza guerra
Tutto il loco ebber pieno immantinente.
Il rubare, il guastar d'una nemica
Vincitrice canaglia il cor vel dica.
Più giorni a militar forma d'impero
L'acquistata città fu sottoposta,
Brancaforte imperando, anzi nel vero
Quel ranocchin ch' egli avea seco a posta,
A ciò che l'alfabetico mistero

Gli rivelasse in parte i dì di posta,
E sempre che bisogno era dell' arte

D' intendere o parlar per via di carte.

Tosto ogni atto, ogn' indizio, insegna o motto
Di mista monarchia fu sparso al vento,
Raso, abbattuto, trasformato o rotto.
Chi statuto nomava e parlamento
In carcere dai lanzi era condotto,
Che del parlar de' topi un solo accento
Più là non intendendo, in tal famiglia
Di parole eran dotti a maraviglia.

Leccafondi che noto era per vero
Amor di patria e del civil progresso,
Non sol privato fu del ministero
E del poter che il re gli avea concesso,
Ma dalla corte e dai maneggi intero
Bando sostenne per volere espresso

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