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ma indurre un duca di Ferrara (1), il quale, intertenendosi in pace con tutti, era stimato da tutti, e conservando i suoi danari non metteva in pericolo alcuno lo stato suo, fu gran cosa e poco creduta da molti; e credo ch'io fossi il primo che ne avvisassi Vostra Serenità. Ma l'avvantaggiarsi colla provvisione di capitan generale della Lega, e con questo modo vendicare anco ingiurie sue particolari con la casa Farnese, e il disegnare per questa via di condurre il reverendissimo suo fratello (2) al papato (credendo che, quanti cardinali fossero domandati al pontefice da esso e dal re, di tanti fosse compiaciuto, e che quelli servirebbero suo fratello al pontificato) lo indusse a fare quella risoluzione, la quale diede maggior vigore ai disegni di Sua Santità e a quelli del re Cristianissimo.

Il duca d' Alva, intendendo questa Lega e gli apparati che si facevano di esercito, per prevenire e non essere astretto a far guerra nello stato suo, con un esercito di sette ad ottomila fanti, duemila cavalli, passa i confini, penetra in quel della Chiesa, occupando Anagni e Frosinone con tanta prestezza e con tanta facilità, che ognuno giudicava che, se fosse venuto inanzi si sarebbe anco fatto padrone di Roma; nella quale non vi era provvisione alcuna, e quei soldati che v'erano, sarebbero stati i primi a saccheggiare. Attendeva il Signor Camillo Orsini alla fortificazione di Roma, con rovine di monasteri, di case e di vigne; si dava al tamburo tutto il dì e la notte con estremo spavento di tutti; ed io prometto alla Serenità Vostra, per la riverenza che le porto, che dopo la presa di Anagni, essendo comparsi alcuni cavalli fin quasi sulle porte di Roma ed essendo dato all' arme, non solamente quei pochi soldati che vi erano non si riducevano all' insegne, ma tutto il popolo e le donne correvano per le strade, cercando di salvarsi come meglio potevano; e il medesimo spavento durò per tutto il tempo

(1) Ercole II.

(2) Ippolito d'Este.

che stette in quei contorni il duca con l'esercito. Allora mi diceva il papa: « questo duca non potrà già più nascondere il suo mal animo, avendo usurpato lo stato ecclesiastico e facendo giurare fedeltà al pontefice futuro; ognuno dovrebbe ormai chiarirsi di questi traditori; i quali, ogni tanti anni, hanno disegnato di venire al sacco di Roma, come a tagliar fieno in un loro prato, ovvero legne in un loro bosco ».

Si risolse il duca, dopo la presa di Vicovaro e di Tivoli, all'impresa d'Ostia, la quale fortificò. Poi ritornò il cardinal Caraffa di Francia col Signor Pietro Strozzi e duemila Guasconi, con la conclusione della lega; gli aiuti della quale perchè vedevano non poter essere così presti, di nuovo si cominciò a parlare di pace. Vi si adoperarono i cardinali Sangiacomo, Paceco e Santafiore, e fu concluso di ritrovarsi ad un abboccamento in Grottaferrata, al quale dovessero andare questi tre cardinali. Vi venne il duca d' Alva; e la mattina che i due cardinali Sangiacomo e Santafiore, erano con li stivali in piedi per andare al cardinal Caraffa, avendo mandato il cardinal Camerlengo a domandar sicurtà in scrittura, che le piegerie che diede per uscir di castello, non potessero mai essere molestate per questa sua uscita di Roma per benefizio comune, nè volendo il papa assicurarlo altramente, quella trattazione si disciolse con grandissimo discontento di tutti. Il pontefice, scusandosi di ciò, disse a me: che non aveva lasciato andare il cardinal suo nipote, perchè l' avrebbero assassinato, secondo il loro costume; oltrechè il mandare tre cardinali a ritrovarsi con un duca, non era dignità sua nè di quella Sede. Le quali cose, intesi che quella sera gli erano state messe inanzi dall' Aldobrandino, come da quello che voleva pur levare ogni occasione di bene, esortando anco molte volte il pontefice a levare la vita a Garcilasso e a tutti gli altri prigioni, perchè lo meritavano. Successe poi il fortificarsi in Ostia, che era un impedire quante voltovaglie venivano a

Roma per mare; e si ritornò un' altra volta a trattare la pace. Andò il cardinal Caraffa, con animo di concluderla, ad abboccarsi nell'isola tra Porto ed Ostia col duca d'Alva; al quale anco andò il segretario Cappello, mandato da Vostra Serenità, e lo trovò disposto di quel modo che fu scritto. Fecero dieci giorni di tregua, e poi si conclusero altri quaranta; onde, avendo noi detto al pontefice che scri veressimo cosa alla Serenità Vostra di molto suo contento, perchè da queste tregue si poteva sperare certa pace; rispose alterato (come scrivemmo): « non sarà niente, non sarà niente, magnifico ambasciatore; ve lo protestiamo, non sarà niente ». La somma di quel negozio fu di scrivere al re, perchè non aveva il duca autorità di dar Siena, che dimandò il car dinal Paceco per il duca di Palliano; e così fu spedito Don Francesco Paceco dal duca, e il Fantuccio per nome del cardinale, al re Filippo. ·

In questo mezzo venne il duca di Guisa con quella brava cavalleria che si sa, e con quella fanteria, sebbene non molta, però valorosa ed atta a fare molte facende. Si proposero tre imprese, secondo i disegni e le affezioni dei collegati. Volevano i Francesi l'impresa dello stato di Milano, e dopo quella di Toscana; disegnava il duca di Ferrara l'impresa di Parma per suo interesse e per avere l'esercito vicino a' suoi stati; il pontefice, quella del Regno di Napoli: alla quale fu astretto venire monsignor di Guisa, avendo commissione dal re di fare tutto quello che voleva Sua Beatitudine; e mostrandogli il cardinal Caraffa, che aveva un breve dal papa, che quella gente dovesse venire inanzi per l'impresa del Regno. Della quale impresa non si poteva aspettare altro successo, che quello che si è veduto; e la buona fortuna del re Filippo volle che si elegesse il meglio per lui; perchè in ogni altro luogo, quell'esercito l'avrebbe travagliato più assai di quello che avria voluto.

Passarono in questo mezzo i quaranta giorni delle tregue;

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si ricuperò Ostia, Tivoli e Vicovaro con l'opera del maresciallo Strozzi; e si avrebbe anco ricuperato il resto, se non si avesse perduto tempo e si avesse seguita la vittoria; della quale iusuperbiti, dicevano pubblicamente che non era più alcuna resistenza all'impresa del Regno di Napoli. Venne il duca di Guisa, il quale non trovò nè i danari, nè le genti, nè le munizioni promesse. Stette in Roma forse un mese, tenendo l'esercito sulla Romagna e sulla Marca, facendovi danni, pei quali molte volte furono astrette quelle provincie di mandare ambasciatori a dolersi grandemente. Parti finalmente il duca mal sodisfatto, come quello che conosceva non poter fare cosa buona; andò insieme col marchese di Montebello all' esercito, passò il Tronto, e fu deliberata l'impresa di Civitella; nella quale, oltre quelli che v'erano dentro, entrò il conte di Santafiore, e la difese di quel modo che si sa, Successero poi quei dispareri fra il duca di Guisa e il marchese di Montebello, per li quali esso marchese ritornò a Roma, e disse al papa e a' suoi fratelli quel peggio che si può dell' animo dei Francesi; ed essi all' incontro biasimarono modestamente il sinistro procedere di Sua Santità; facendo intendere il duca di Guisa, di aver avuto ordine dal re di ritornare in Francia; il che a me fu fatto intendere che era successo, perchè esso monsignor di Guisa aveva particola:mente fatto sapere al re, che ogni cosa gli era mancata di qui. Per questo fu mandato il duca di Palliano, acciocchè con la sua destrezza e con certa somma di danari che portò seco, trattenesse il duca. Andò insieme col duca di Palliano il maresciallo Strozzi, per far conoscere che il ritorno suo in Francia, era un lasciare il papa in mano de' suoi nemici; e questo non poteva essere se non maleficio del re. Si doleva il duca di Guisa di molte cose, fra le quali era questa: che ogni di si trattava la pace senza fargli intendere cosa alcuna; e che un giorno si concluderebbe, ed esso andrebbe a risico di perder l'esercito; e però vorrebbe avere qualche città nelle

mani, e particolarmente Civitavecchia, come gli era stato promesso, per potersi assicurare. Ritornò lo Strozzi a Roma, e sebbene la trattazione della pace si stringesse, fu però deliberato che andasse in Francia e conducesse seco l'unico figliuolo del duca di Palliano, quasi come ostaggio; dal che nacque, che tutta la speranza della pace, fondata sopra la necessità, si perdette. Andò il maresciallo al re cristianissimo, e portò risoluzione ed ordine al duca di Guisa, che si fermasse e facesse la volontà del papa; ma che si tentasse altra impresa da quella del Regno, la quale era impossibile, e che si voltassero l' armi contro Toscana ai danni del duca di Fiorenza; che il pontefice avesse in essere diecimila fanti, e che settemila ne sarebbero pagati dai fuorusciti di Firenze per questa impresa, che il re li accrescerebbe sino al numero di ventimila, con altri cavalli.

Mentre si trattavano queste cose, ecco Marcantonio Colonna con alcuni pochi soldati pagati e col favore de' suoi sudditi affezionatissimi a casa Colonna, mette sottosopra il suo stato, ne ricupera parte, assedia Palliano, corre ogni giorno fin sopra le porte di Roma, e riduce nei primi spaventi quella città. Pochi giorni dopo, il duca d'Alva fece tutta una notte e il giorno seguente camminare l'esercito tanto, che alla mezza notte poteva essere alle porte di Roma, per entrare ed assicurarsi, come esso diceva, del papa; avendo esortato l'esercito che non saccheggiasse Roma e per questo promessogli due paghe. Al che sebbene assentirono, pure intendendo che i Tedeschi avevano deliberato di non perdere questa occasione di arricchirsi, dicono quelli che l'amano, ch' egli non volle entrare in Roma, ma mostrare solamente che poteva entrare, e per dimostrare al papa ed a' suoi, in che pericolo stavano. Altri dicono, che ebbe pur troppo voglia di entrare, ma non potè; perchè dubitò dai lumi che s'erano veduti, dalle voci che si sentivano, e da alcuni pochi cavalli ch'erano usciti, che di den

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