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Giá cultori apparecchia, artieri, esquadre A la patria d'eroi famosa madre.

Crescete, o pargoletti: un di sarete, Tu, forte appoggio de le patrie mura; E tu, soave cura

E lusinghevol esca a i casti cori.
Ma, oh dio! qual falce miete
De la ridente messe

Le si dolci promesse?

O quai d'atroce grandine furori

Ne sfregiano il bel verde e i primi fiori?

Fra le tenere membra orribil siede
Tacito seme; e d'improvviso il desta
Una furia funesta,

De la stirpe degli uomini flagello
Urta al di dentro, e fiede
Con lievito mortale;

E la macchina frale

O al tutto abbatte, o le rapisce il bello, Quasi a statua d'eroe rival scarpello.

Tutti la furia indomita vorace,
Tutti una volta assale a i più verd' anni;
E le strida e gli aflanni

Da i tuguri conduce a' regi tetti;
E con la man rapace

Ne le tombe condensa

Prole d'uomini immensa.

ODI.

Sfugge taluno, è vero, a i guardi infetti; Ma palpitando peggior fato aspetti.

Oh miseri! Che val di medic' arte
Né studi oprar, nè farmachi, nè mani?
Tutti i sudor son vani,

Quando il morbo nemico è su la porta,
E vigor gli comparte
De la sorpresa salma
La non perfetta calma.

Oh debil arte, oh mal secura scorta, [ta!
Che il male attendi, e no 'l previeni accor-
Gia non l'attende in Oriente il folto
Popol, che noi chiamiam barbaro e rude;
Ma sagace delude

Il fiero inevitabile demone.

Poi che il buon punto ha colto,
Onde il mostro conquida,
Coraggioso lo sfida;

E lo astrigne ad usar ne la tenzone
L'armi che ottuse tra le man gli pone.

Del regnante velen spontaneo elegge Quel ch'e men tristo; e macolar ne suole La ben amata prole,

Che, non più recidiva, in salvo torna,
Però d'umano gregge

Va Pechino coperto;

E di femmineo merto

Tesoreggia il Circasso, e i chiostri adorna
Ove la Dea di Cipri orba soggiorna.

O Monteyù, qual peregrina nave,
Barbare terre misurando e mari,
E di popoli vari

Diseppellendo antiqui regni e vasti,
E a noi tornando grave

Di strana gemma c d'auro,
Portò si gran tesauro,

Che a pareggiare, non che a vincer basti
Quel che tu dall' Eusino a noi recasti?

Rise l'Anglia, la Francia, Italia rise
Al rammentar del favoloso Innesto;
E il giudizio molesto

De la falsa ragione incontro alzosse.
In van l'effetto arrise

A le imprese tentate;
Che la falsa pictate

[se,

Contro al suo bene, e contro al ver si mosE di lamento femminile armosse.

Ben fur preste a raccor gl' infausti doni, Che, attraversando l'oceano aprico, Lor condusse Americo;

E ad ambe man li trangugiaron pronte.
Di lacerati troni

Gli avanzi sanguinosi,
E i frutti velenosi

Strinser gioiendo; e da lo stesso fonte
De la vita succhiar spasimi ed onte.

Tal del folle mortal, tale è la sorte:
Contra ragione or di natura abusa;
Or di ragion mal usa

Contra natura che i suoi don gli porge.
Questa a schifar la morte
Insegnò, madre amante,
A un popolo ignorante;

E il popol colto, che tropp'alto scorge,
Contro a i consigli di tal madre insorge.

Sempre il novo ch'è grande, appar
menzogna,

Mio Bicetti, al volgar debile ingegno;
Ma imperturbato il regno

De' saggi dietro all'utile s'ostina.
Minaccia, nè vergogna
No 'l frena, no 'l rimove;
Prove accumula a prove;
Del popolare error l'idol rovina;
E la salute a i posteri destina.

Così l'Anglia, la Francia, Italia vide

Drappel di saggi contro al vulgo armarse.

Lor zelo indomit' arse,

E di popolo in popolo s'accese.
Contro all'armi omicide

Non più debole e nudo,
Ma sotto a certo scudo

Il tenero garzon cauto discese,
E il fato inesorabile sorprese.

Tu sull'orme di quelli ardito corri, Tu pur, Bicetti; e di combatter tenta La pietà violenta,

Che a le Insubriche madri il core implíca.
L'umanità soccorri;
Spregia l'ingiusto soglio,
Ove s' arman d'orgoglio

La superstizion, del ver nemica,

E l'ostinata folle scola antica.

Quanta parte maggior d'almi nipoti Coltiverà nostri felici campi!

[ra!

E quanta fia che avvampi
D'industria in pace, o di coraggio in guer-
Quanta i soavi moti
Propagherà d'amore,
E desterà il languore

Del pigro Imene, che infecondo or erra,
Contro all'util comun, di terra in terra!

Le giovinette con le man di rosa
Idalio mirto coglieranno un giorno;
All' alta quercia intorno

I giovinetti fronde coglieranno;
E a la tua chioma annosa,
Cui per doppio decoro

Già circonda l'alloro,

Intrecceran ghirlande, e canteranno : Questi a morte ne tolse, o a lungo danno.

Tale il nobile plettro infra le dita
Mi profeteggia armonioso e dolce;
Nobil plettro, che molce

Il duro sasso dell'umana mente;
E da lunge lo invita

Con lusinghevol suono

Verso il ver, verso il buono;

Ne mai con laude bestemmiò nocente
O il falso in trono, o la viltà potente.

IL BISOGNO

AL SIGNOR WIRTZ

PAETORE PER LA REPUBBLICA ALTETICA.

On tiranno signore De' miseri mortali,

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Oltre corri, e fremente
Strappi Ragion dal soglio;
E il regno de la mente
Occupi pien d'orgoglio;
E ti poni a sedere
Tiranno del pensiere.

Con le folgori in mano
La legge alto minaccia,
Ma il periglio lontano
Non scolora la faccia
Di chi senza soccorso
Ha il tuo peso sul dorso.

Al misero mortale
Ogni lume s' ammorza ;
Ver la scesa del male
Tu lo strascini a forza.
Ei, di sè stesso in bando,
Va giù precipitando.

Ahi! l'infelice allora I comun patti rompe; Ogni confine ignora; Ne' beni altrui prorompe; Mangia i rapiti pani Con sanguinose mani.

Ma quali odo lamenti,
E stridor di catene,
E ingegnosi stromenti
Veggo d' atroci pene
Là per quegli antri oscuri,
Cinti d'orridi muri?

Cola Temide armata
Tien giudizii funesti
Su la turba aflannata,
Che tu persuadesti
A romper gli altrui dritti,
O padre di delitti.

Meco vieni al cospetto
Del nume, che vi siede.
No, non avra dispetto,
Che tu v' innoltri il piede.
Da lui con lieto volto

Anco il Bisogno è accolto.
O ministri di Temi,

Le spade sospendete;
Da i pulpiti supremi
Qua l'orecchio volgete.
Chi è che pietà niega
Al Bisogno, che prega?
Perdon, dic' ei, perdono
A i miseri cruciati.
lo son l'autore, io sono
De' lor primi peccati :
Sia contro a me diretta
La pubblica vendetta.

Ma quale a tai parole
Giudice si commove?
Qual dell' umana prole
A pietade si move?

Tu, Wirtz, uom saggio e giusto,
Ne dai l'esempio augusto :

Tu cui si spesso vinse
Dolor degl' infelici,
Che il Bisogno sospinse
A por le rapitrici
Mani nell' altrui parte
O per forza o per arte;
E il carcere temuto
Lor lieto spalancasti;
E dando oro ed aiuto,
Generoso insegnasti,
Come senza le pene
Il fallo si previene.

LA EDUCAZIONE.

TORNA a fiorir la rosa,
Che pur dianzi languía,
E molle si riposa
Sopra i gigli di pria.
Brillano le pupille
Di vivaci scintille.

La guancia risorgente
Tondeggia sul bel viso;
E, quasi lampo ardente,
Va saltellando il riso
Tra i muscoli del labro,
Ove riede il cinabro.

I crin che in rete accolti
Lunga stagione ahi! fôro,
Sull' omero disciolti,
Qual ruscelletto d'oro,

Forma attendon novella
D'artificiose anella.

Vigor novo conforta
L'irrequieto piede :
Natura ecco ecco il porta,
Si che al vento non cede,
Fra gli utili trastulli
De' vezzosi fanciulli.

O mio tenero verso,
Di chi parlando vai,
Che studii esser più terso
E polito che mai?
Parli del giovinetto,
Mia cura e mio diletto?

Pur or cessò l'affanno
Del morbo, ond' ei fu grave:
Oggi l'undecim' anno
Gli porta il Sol, soave
Scaldando con sua teda
1 figliuoli di Leda.

Simili or dunque a dolce
Mele di favi Ibléi,
Che lento i petti molce,
Scendete, o versi miei,
Sopra l'ali sonore
Del giovinetto al core.

O pianta di buon seme,
Al suolo, al cielo amica,
Che a coronar la speme
Cresci di mia fatica,
Salve in si fausto giorno
Di pura luce adorno.

Vorrei di geniali
Doni gran pregio offrirti;
Ma chi die liberali
Essere a i sacri spirti?
Fuor che la cetra, a loro
Non venne altro tesoro.

Deh! perchè non somiglio
Al Tessalo maestro,
Che di Tetide il figlio
Guidò sul cammin destro?
Ben io ti farei doni
Più che d'oro e canzoni.

Già con medica mano Quel Centauro ingegnoso Rendea feroce e sano Il suo alunno famoso; Ma, non men che a la salma, Porgea vigore all' alma.

A lui che gli sedea

Sopra la irsuta schiena, Chiron si rivolgea Con la fronte serena, Tentando in su la lira Suon che virtude inspira. Scorrea con giovanile Man pel selvoso mento Del precettor gentile, E con l'orecchio intento D'E cide la prole Bevea queste parole :

Garzon, nato al soccorso
Di Grecia, or ti rimembra,
Perchè a la lotta e al corso
lo t'educai le membra.
Che non può un'alma ardita,
Se in forti membri ha vita?

Ben sul robusto fianco
Stai; ben stendi dell'arco
Il nervo al lato manco:
Onde al segno ch'io marco,
Va stridendo lo strale
Da la cocca fatale.

Ma in van, se il resto oblio,
Ti avrò possanza infuso.
Non sai qual contro a Dio
Fe' di sue forze abuso
Con temeraria fronte
Chi monte impose a monte?

Di Teti odi o figliuolo,
Il ver, che a te si scopre :
Dall' alma origin solo
Han le lodevol' opre.
Mal giova illustre sangue
Ad animo che langue.

D'Eaco e di Peléo
Col seme in te non scese
Il valor, che Tesco
Chiari e Tirintio rese;
Sol da noi si guadagna,
E con noi s'accompagna.
Gran prole era di Giove
Il magnanimo Alcide;
Ma quante egli fa prove,
E quanti mostri ancide,
Onde s'innalzi poi
Al seggio de gli eroi?

Altri le altere cune

Lascia, o garzon, che pregi :

Le superbe fortune

Del vile anco son fregi.

Chi de la gloria è vago,
Sol di virtù sia pago.

Onora, o figlio, il Nume,
Che dall' alto ti guarda;
Ma solo a lui non fume
Incenso, o vittim' arda.
È d'uopo, Achille, alzare
Nell' alma il primo altare.

Giustizia entro al tuo seno
Sieda, e sul labbro il vero;
E le tue mani sieno
Qual albero straniero,
Onde soavi unguenti
Stillin sopra le genti.

Perchè si pronti affetti
Nel core il ciel ti pose?
Questi a Ragion commetti;
E tu vedrai gran cose.
Quindi l'alta rettrice
Somma virtude elice.

Si bei doni del cielo
No, non celar, garzone,
Con ipocrito velo,

Che a la virtù si oppone.
Il marchio, ond'è il cor scolto,
Lascia apparir nel volto.

Da la lor meta han lode,
Figlio, gli affetti umani.
Tu, per la Grecia, prode
Insanguina le mani:
Qua volgi, qua l'ardire
De le magnanim'ire.

Ma quel più dolce senso,
Onde ad amar ti pieghi,
Tra lo stuol d'armi denso
Venga, e pietà non nieghi
Al debole che cade,
E a te grida pietade.

Te questo ognor costante
Schermo renda al mendico;
Fido ti faccia amante,
E indomabile amico.
Così con legge alterna
L'animo si governa.

Tal cantava il Centauro.
Baci il giovin gli offriva
Con ghirlande di lauro.
E Tetide, che udiva,
A la fera divina
Plaudía da la marina.

LA TEMPESTA.

ODI, Alcone, il muggito

Nell'alto mar de la crudel tempesta,
E la folgor funesta,

Che con tuono infinito

Scoppia da lungi, e rimbombar fa il lito.

Ahime! miseri legni,

Che cupidigia e ambizion sospinse,
E facil aura vinse

Per li mobili regni

Lor speme a sciorre oltre gli Erculei segni!
Altro sperò giocondo
Tornar da ignote preziose cave,
E d'oro e gemme grave
Opprimer col suo pondo

De la spiaggia nativa il basso fondo.

Credeva altro d'immani
Mostri oleosi preda far nell'alto;
Altro feroce assalto

Dare a gli abeti estrani,

E dell' altrui tesoro empier suoi vani.

Ma il tuono e il vento e l' onda
Terribilmente agita tutti e batte;
Ne le vele contratte,
Ne da la doppia sponda

Il forte remigar, l'urto che abbonda

Vince, ne frena. E intanto, Serpendo incendioso, il fulmin fischia; E fra l'orribil mischia

De' venti, e il buio manto

Del cielo, ognun paventa essere infranto.

E già più l' un non puote

L'alto durar tormento: uno al destino
Fa contrario cammino;

Un contro all' aspra cote

Di cieco scoglio il fianco urta e percote.

E quale il flutto avverso

Beve

giá rotto; e qual del multiforme

Monte dell'acque enorme

Sopra di lui riverso

[so.

Cede al gran peso,e al fin piomba sommer

Alcon, non ti rammenti

Quel che superbo per ornata prora
Veleggiava finora,

Di purpurei, lucenti

Segni ingombrando gli alberi potenti?

A quello d'ambo i lati

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Stendeansi piane a lui davanti; e aigremFregiati d'aurei lembi,

De' canapi felici

Spiravan ostinati i venti amici;

Mentre Glauco e i Tritoni

Pur con le braccia lo spingean più forte;
E da le conche torte
Lusingavano i buoni

Augurii intorno a lui con alti suoni.

E lungo i pinti banchi

Le Dee del mar, sparse le chiome bionde, Carolavan per l'onde,

Che lucide su i bianchi

Dorsi fuggian strisciando e sopra i fianchi
Fra tanto, senza alcuno

Il beato nocchier timor che il roda,
Dall'alto de la proda,

Al mattin primo e al bruno
Vespro, cosi cantava inni a Nettuno :

A te sia lode, o nume,

Di cui son l'opre ognor potenti e grandi, O se nel suol ti spandi

Con le fuggenti spume,

O di Cinzia t'innalzi al chiaro lume.

Tu col tridente altero

A tuo piacer la terra ampia dividi;
Tu, fra gli opposti lidi
Del duplice emispero,

Scorrevole a i mortali apri sentiero.

Rota per te le nuove,
Con subitaneo pie, veci Fortuna;
E quello, che con una
Occhiata il tutto move,

Non è di te maggior, superno Giove.

Tale adulava. Or mira,

Or mira, Alcon, come del porto in faccia, Lungi dal porto il caccia

Nettuno stesso, e a dira

Sorte con gli altri lo trasporta e aggira!

E la ricchezza imposta

Indi con la tornante onda ritoglie;
E le lacere spoglie

Ne gitta e la scomposta

Mole a traverso dell' arida costa.

Ahi, qual furore il mena

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