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E spiegar più d'un desío,
E temprar l'occulto ardore
Sotto all' ala dell' Amore.

IL PASSATEMPO.

Ho gusto ancor di vivere
In compagnia ridente
Che scherzi follemente
In compagnia d'Amor.

Olá, fanciulle tenere,
Sedetevi al mio fianco :
È ver che il crine ho bianco,
Ma non ho vecchio il cor.

Vedete? Ecco la cetera
Del vecchio Anacreonte:
lo ne fo scudo all' onte
De la fugace età.

Ei me la die', dicendomi :
Tienti quest'arme a lato;
Ne paventar del fato
Che incontro ti verrà.

Qui dell' amabil Venere
Son le colombe avvezze
A tesser le carezze
Col rostro porporin;

E se talor mi picchiano
O il crine o il sen per gioco,
Tosto di giovin foco
Crepita il seno e il crin.

LA PRIMAVERA.

La vaga Primavera Ecco che a noi sen viene; E sparge le serene Aure di molli odori.

L'erbe novelle e i fiori Ornano il colle e il prato. Torna a veder l'amato Nido la rondinella;

E torna la sorella Di lei a i pianti gravi; E tornano a i soavi Baci le tortorelle.

Escon le pecorelle Del lor soggiorno odioso; E cercan l'odoroso

Timo di balza in balza.

La pastorella scalza
Ne vien con esse a paro;
Ne vien cantando il caro
Nome del suo pastore.

Ed ei, seguendo Amore,
Volge ove il canto sente;
E coglie la innocente
Ninfa sul fresco rio.

Oggi del suo desio
Amore infiamma il mondo :
Amore il suo giocondo
Senso a le cose inspira.

Sola il dolor non mira
Clori del suo fedele;
E sol quella crudele
Anima non sospira.

LA INDIFFERENZA.

OFFESO un giorno Amore Da un mal accorto amante Giurò a la madre innante Che avría dell' offensore Dato un esempio eterno; Indi scese all'inferno. Olá monarca immite

Del tenebroso Dite,

Se di teneri affetti
E d'ignoti diletti
Ti fui largo una volta,
Oggi tu pur m'ascolta.
Fra le crudeli pene
Che la tua chiostra tiene,
Qual cagiona più pianti
A i delicati amanti?
Qual è che più li coce,
E qual è la più atroce?
Or quella a me concedi
Per punire un mortale.
Amor, ciò che tu chiedi
Si faccia nel mio regno,
Disse il prence infernale
E con la man die' segno.
Ecco per l'ombre oscure
Tosto venir le cure
A cruciar destinate
L'anime innamorate.
V'è il rigore indiscreto,
V'è il capriccio inquieto,
Lo sdegno minacciante,

Lo scherno umiliante,

La dubbiosa incostanza,

L'ansiosa lontananza,
Il rifiuto ostinato,
Il bando disperato.
Sull' adunata schiera
Incerto Amor pendea :
E fra la barba nera
Plutone sorridea;
E così gli dicea :
Ben abile tu sei,
Domator de gli Dei,
A scegliere i piaceri
Più graditi a i viventi;
Ma non sai fra i tormenti
Conoscere i più fieri.
Non vedi, fra i tormenti
Che la mia chiostra tiene,
Con tranquilla apparenza
La fredda Indifferenza?
Quella è il maggior cimento
De gli animi costanti;

Quella è il peggior tormento De i delicati amanti. Ahimè! l'irato Dio Prese quel mostro rio; E con mano sdegnata Ad abitar lo pose Ne le luci vezzose De la fanciulla amata. Lo sventurato amante Sofferto avría costante Il rigore indiscreto, Il capriccio inquieto, Lo sdegno minacciante Lo scherno umiliante, La dubbiosa incostanza, L'ansiosa lontananza, Il rifiuto ostinato, Il bando disperato ; Ma non pote' soffrire La tranquilla apparenza; E lo fece morire

La fredda Indifferenza.

SONETTI.

AL SONNO.

O SONNO placido che con liev' orme Vai per le tenebre movendo l'ali, E intorno a i miseri lassi mortali Giri con l'agili tue varie forme;

Là dove Fillide secura dorme Stesa su candidi molli guanciali Vanne, e un'immagine carca di mali In mente pingile trista e deforme.

Tanto a me simili quell' ombre inventa, E al color pallido che in me si spande, Ch'ella destandosi pietà ne senta.

Se tu concedimi favor sì grande, Con man vo' porgerti tacita e lenta Due di papaveri fresche ghirlande.

II.

PER RISCATTO

DI SCHIAVI INSUBRI.

QUESTE incallite man, queste carni arse D' Africa al sol, questi piè rosi e stanchi Di servil ferro, questi ignudi fianchi Donde sangue e sudor largo si sparse,

Toccano al fin la patria terra; apparse Sovr' essi un raggio di pietade, e franchi Mostransia i figli, a le consorti, ai bianchi Padri che ogni lor duol senton calmarse.

O cara Patria! o care leggi! o sacri Riti! Noi vi piangemmo alle Meschite Empie d'intorno, e a i barbari lavacri.

Salvate voi queste cadenti vite,
E questi spirti estenuati e macri
Col sangue del divino Agno nodrite.

III.

LA PIETA' DIVINA.

L'ARBOR SOn io, Signor, che tu ponesti Ne la tua vigna; e a coltivar lo prese Misericordia, i cui pensier fur desti Sempre a guardarlo da nemiche offese.

Ma il tronco ingrato che si caro avesti Frutto finora al suo cultor non rese; E dell' ampie superbo ombrose vesti Sol con sterili braccia in alto ascese.

Però tosto che il vide, arse di sdegno Tua Giustizia: e perchè, disse, il terreno Occupa indarno? Omai si tagli ed arda.

Ma Pietà pose al tuo furor ritegno Gridando un anno attendi, un anno al

meno.

Arbor che fia se il tuo fruttar più tarda?

IV.

A VITTORIO ALFIERI.

TANTA già di coturni altero ingegno Sovra l'Italo Pindo orma tu stampi, Che andrai, se te non vince o lode o sdegno,

Lungi dell'arte a spaziar fra i campi.

Come dal cupo, ove gli affetti han regno, Trai del vero e del grande accesi lampi : E le poste a' tuoi colpi anime segno Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi!

Perchè dell' estro a i generosi passi Fan ceppo i carmi? E dove il pensier tuona,

Non risponde la voce amica e franca?

Osa, contendi; e di tua man vedrassi Cinger l'Italia omai quella corona Che al suo crin glorioso unica manca.

V.

A DIO.

VIRTÙ donasti al sol che a sè i pianeti Ognor tragge, o gran Dio, poi di tua mano Moto lor desti per l'immenso vano Che a gir gli sforzi, e unirsi a lui lor vieti :

Ond'è che intorno al sole irriquieti Rotan maisempre. Andran da lui lontano,

Se il vigor che gli attragge un di fia vano, O in lui cadran, se il lor moto s'acqueti.

Oh eterno Sol che padre all altro sei! Tua grazia io sento onde ver te mi volga, E il fomite che va contrario a lei.

Deh! fa che quando il gran nodo si sciolga

Io non fugga in eterno insieme a i rei, Ma ch'entro a la tua luce alto m'avvolga.

VI.

FELICITA DELL'INNOCENZA.

Si, fuggi pur le glebe e il vomer duro Ch'io ti die' in pena dell' antico fallo : Credi però dell'oro ergerti un vallo Ove tra gli ozii tuoi viver securo?

Tristo! non sai ch'io'l mio furor maturo, Ma non l'obblio giammai? che piedestallo Mal fermo ha la tua sorte? E che in van dalStento t'invola impenetrabil muro? [lo

Dio così parla; e ratto move a danno De' possenti le cure atre, e quel crudo Laniator de gli uman petti affanno.

Bella Innocenza in tanto il braccio ignudo

Sul vomer posa; e fra sè dice: ond' hanno Tal dolcezza le stille auree ch'io sudo ?

VII.

L'ESTRO.

QUAL cagion, qual virtù, qual foco innato,

Signore, è quel che la tua mente accende, Quando ogni core a i versi tuoi beato, Da i labbri tuoi meravigliando pende?

È spirito ? È materia? È Dio che scende L'una e l'altro agitando oltre l'usato? Come Estro in te nasce; e come stende In noi sue forze imperioso e grato?

Tul'arcano ch'io cerco esponi al giorno: E mentre il ver da le tue labbra espresso Splenda di grazie e di bellezze adorno,

Crederò di veder lungo il Permesso, Fra il coro de le Muse accolte intorno, Parlar de le sue doti Apollo istesso.

IL LAURO.

APOLLO passeggiò

Jer l'altro per la via;
E il suo Lauro mirò

Appeso per insegna all'osteria.

Allor lo Dio canoro
Diede affatto ne' lumi;
Stracciossi i capei d'oro;
E poi gridò così:

Oh secolo oh costumi!
Chi fu quel mascalzone
Che por le mie corone
In sì vil loco ardi?
Deh perchè non è qui

Ch'io il farei diventar Marsia o Pitone!

Udi questa bravata il buon Sileno Che di dentro giocando

Co' suoi Fauni, e trincando

Faceva il verno rio parer sereno.
Però tremando

E barcollando,

Con occhi ove ad ognora

Mista col vin scoppietta l'allegría,
Usci dell' ostería;

E disse al Sol che bestemmiava ancora:

O figlio di Latona,

O di Cinzia fratello,

Onde tanto rovello?

Sai tu perché l'eterna

Tua ghirlanda ora è fregio a la taverna?
Un vate poverello,

Non si trovando da pagar lo scotto,
Pegno lasciolla all'oste,
Dicendo questa dotto

Faravvi divenir, se ben voi foste

Più tondo assai che non è l'O di Giotto.

Questa da voi lontano

Le folgori terrà :

E per voi Giove in vano

Dal cielo tonerà.

L'oste con quello alloro
All' orefice andò,

Pensando di cavarne un gran tesoro;
E il fatto gli narrò.

Rise il maestro; e poi disse: mirate
Che le putte scodate

Or calano a la rete!
Compare, in fede mia
Andate, che voi siete
Più asino di pria.
L'oste a casa tornato,
Un fulmine cascò
Che tutto gli asciugò
Ne le bigonce il vino.
Il novo Calandrino,
Vedutosi beflato,
Tolse lo alloro, e irato
Con le sue proprie mani
Lo appese all' ostería,
Dicendo: là rimani

Per vituperio de la Poesía.

Silen volea più dir; ma non potè Febo tenersi più;

E il Lauro strappò giù

Dai crini; e disse: io non ti stimo un fico.
Vanne lungi da me :

E al colmo de la infamia oggi t' appresta.
Disse e a un dottor mio amico
Ne coronò la testa.

IN MORTE DEL BARBIERE

CANZONE.

O SEREGIA, O Sfregia mio,

O dolce mio barbiere,

O de le guance amor, delizia e cura,
Ahimè che farò io,

Poi che ti trasse a i regni oscuri e neri
Empia morte immatura?

Vita lieta e sicura,

Gli è ver, tu meni a casa di Plutone,

Ove, benchè sii morto,

Fai la barba ad Omero ed a Platone.

Ma, lasso! qual conforto

Sperar poss' io, se più sperar non posso Chi, come te, mi rada in fino all'osso?

Qualor, passando, io miro
La quondam tua bottega,

Mi sento dall' ambascia venir meno;
Traggo più d'un sospiro;

La bacio; e tento di sfogar la frega,
Che ho per te ancor nel seno.
Poi l'amato terreno

Veggendo or fatto si deserto, io grido: 'Ve sono ora i trecconi,

Che qui venien, come a lor dolce nido; E gli sgherri e i baroni,

Che i sabbati partien con alti e spessi Segni del tuo valore, o Sfregia, impressi?

Que' fortunati istanti,
Che inteso eri al lavoro,

Tornanmi a mente, come fosser vivi.
Parmi avermiti avanti

Tal quale io ti vedea rader coloro,
Che prima erano quivi.
Come su pe' declivi

Fanno del tetto i mici per la foia;
Tali s'udieno questi

Sotto al tuo ferro miagolar di gioia.
Chi a le sfere celesti

Per la dolcezza i lumi ambo volgea;
Chi sospirava; e chi i denti strignea.

Una mattina intera
Non avev' anco atteso,
Quando tu m' invitavi al caro intrico.
Una seranna quivi era,

Che avea per ben due secoli conteso
Col tempo suo nemico.
Parea di verde antico

Al sol sentirla; e tratti avea si fini,
Che a chi vi si appoggiava,
Giva facendo mille vaghi inchini.
Ma ritta poi si stava

Si tosto, che tu provvido mettéi
Sotto una bietta all' uno de' tre piei.

Mi vi acconciavo sopra,
Poi che il mio buon destino
Aveavi al fine il bilico trovato.
E tu la nobil opra
Incominciavi con un pannolino,
Che molto era stimato ;
Impero che Pilato

L'usò quel di, che si lavò le mane;
E da quel giorno in poi

Non avea visto mai laghi e fontane.
Tu, con que' diti tuoi,
Questa reliquia, così rara e sola,
Tra il collar conficcavimi e la gola.

Si tosto al collo intorno
Cominciavo a sentire
Certo soave insolito prurito :
Segno, più assai che il giorno

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Che arnese non fu mai, più di quel, ghiot-
D'un pellegrino puzzo

Tutto spirava e di fuora e di drento,
Che al naso facea motto.

Da un lato era un po' rotto;

E di quivi nel mezzo al mio diletto
Scendea l'unto odoroso,
Misto col ranno, a profumarmi il petto.
Sfregia, per me non oso

Dell' altre lodi tue salir la strada.
Deh! porgimi la man, perch' io non cada.

A dir quasi m' impaccio,
Come, o gentil barbiere,
Tu m'impiastrasti di sapon la guancia.
Pria sfoderavi un braccio,

Che avria quel d'Esaù fatto parere
Un nonnulla, una ciancia.

Di color verde e rancia

Poscia una spuma, che pareva gnocchi, Pigliavi; e a larga mano

Le labbra m'infardavi e il naso e gli occhi. Ahi che piacer sovrano!

Quasi, come a Ruggier, dicer mi tocca, Che spesso i' avea più d'un tuo dito in bocca.

Le stagion rovesciare

A te già non piaceva,

Com' usan certe frasche a questa etate;

Anzi il verno agghiadare

Facevane il tuo ranno; e ne coceva,
Quand' egli era la state.

Ma poi ch'ambe impeciate
M'avéi le guance, tu mi sciorinavi
Un cencio su una spalla,

Ov'era il pel di tutti e sette i Savi;
Anzi parea una stalla,

Anzi un serraglio, a i tanti ivi dispersi
Verdi peli, sanguigni, oscuri e persi.

Oh che dolcezza, quando
Al fin sopra il mio viso
Pigliavi a dimenare il tuo rasoio!

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