E spiegar più d'un desío, IL PASSATEMPO. Ho gusto ancor di vivere Olá, fanciulle tenere, Vedete? Ecco la cetera Ei me la die', dicendomi : Qui dell' amabil Venere E se talor mi picchiano LA PRIMAVERA. La vaga Primavera Ecco che a noi sen viene; E sparge le serene Aure di molli odori. L'erbe novelle e i fiori Ornano il colle e il prato. Torna a veder l'amato Nido la rondinella; E torna la sorella Di lei a i pianti gravi; E tornano a i soavi Baci le tortorelle. Escon le pecorelle Del lor soggiorno odioso; E cercan l'odoroso Timo di balza in balza. La pastorella scalza Ed ei, seguendo Amore, Oggi del suo desio Sola il dolor non mira LA INDIFFERENZA. OFFESO un giorno Amore Da un mal accorto amante Giurò a la madre innante Che avría dell' offensore Dato un esempio eterno; Indi scese all'inferno. Olá monarca immite Del tenebroso Dite, Se di teneri affetti Lo scherno umiliante, La dubbiosa incostanza, L'ansiosa lontananza, Quella è il peggior tormento De i delicati amanti. Ahimè! l'irato Dio Prese quel mostro rio; E con mano sdegnata Ad abitar lo pose Ne le luci vezzose De la fanciulla amata. Lo sventurato amante Sofferto avría costante Il rigore indiscreto, Il capriccio inquieto, Lo sdegno minacciante Lo scherno umiliante, La dubbiosa incostanza, L'ansiosa lontananza, Il rifiuto ostinato, Il bando disperato ; Ma non pote' soffrire La tranquilla apparenza; E lo fece morire La fredda Indifferenza. SONETTI. AL SONNO. O SONNO placido che con liev' orme Vai per le tenebre movendo l'ali, E intorno a i miseri lassi mortali Giri con l'agili tue varie forme; Là dove Fillide secura dorme Stesa su candidi molli guanciali Vanne, e un'immagine carca di mali In mente pingile trista e deforme. Tanto a me simili quell' ombre inventa, E al color pallido che in me si spande, Ch'ella destandosi pietà ne senta. Se tu concedimi favor sì grande, Con man vo' porgerti tacita e lenta Due di papaveri fresche ghirlande. II. PER RISCATTO DI SCHIAVI INSUBRI. QUESTE incallite man, queste carni arse D' Africa al sol, questi piè rosi e stanchi Di servil ferro, questi ignudi fianchi Donde sangue e sudor largo si sparse, Toccano al fin la patria terra; apparse Sovr' essi un raggio di pietade, e franchi Mostransia i figli, a le consorti, ai bianchi Padri che ogni lor duol senton calmarse. O cara Patria! o care leggi! o sacri Riti! Noi vi piangemmo alle Meschite Empie d'intorno, e a i barbari lavacri. Salvate voi queste cadenti vite, III. LA PIETA' DIVINA. L'ARBOR SOn io, Signor, che tu ponesti Ne la tua vigna; e a coltivar lo prese Misericordia, i cui pensier fur desti Sempre a guardarlo da nemiche offese. Ma il tronco ingrato che si caro avesti Frutto finora al suo cultor non rese; E dell' ampie superbo ombrose vesti Sol con sterili braccia in alto ascese. Però tosto che il vide, arse di sdegno Tua Giustizia: e perchè, disse, il terreno Occupa indarno? Omai si tagli ed arda. Ma Pietà pose al tuo furor ritegno Gridando un anno attendi, un anno al meno. Arbor che fia se il tuo fruttar più tarda? IV. A VITTORIO ALFIERI. TANTA già di coturni altero ingegno Sovra l'Italo Pindo orma tu stampi, Che andrai, se te non vince o lode o sdegno, Lungi dell'arte a spaziar fra i campi. Come dal cupo, ove gli affetti han regno, Trai del vero e del grande accesi lampi : E le poste a' tuoi colpi anime segno Pien d'inusato ardir scuoti ed avvampi! Perchè dell' estro a i generosi passi Fan ceppo i carmi? E dove il pensier tuona, Non risponde la voce amica e franca? Osa, contendi; e di tua man vedrassi Cinger l'Italia omai quella corona Che al suo crin glorioso unica manca. V. A DIO. VIRTÙ donasti al sol che a sè i pianeti Ognor tragge, o gran Dio, poi di tua mano Moto lor desti per l'immenso vano Che a gir gli sforzi, e unirsi a lui lor vieti : Ond'è che intorno al sole irriquieti Rotan maisempre. Andran da lui lontano, Se il vigor che gli attragge un di fia vano, O in lui cadran, se il lor moto s'acqueti. Oh eterno Sol che padre all altro sei! Tua grazia io sento onde ver te mi volga, E il fomite che va contrario a lei. Deh! fa che quando il gran nodo si sciolga Io non fugga in eterno insieme a i rei, Ma ch'entro a la tua luce alto m'avvolga. VI. FELICITA DELL'INNOCENZA. Si, fuggi pur le glebe e il vomer duro Ch'io ti die' in pena dell' antico fallo : Credi però dell'oro ergerti un vallo Ove tra gli ozii tuoi viver securo? Tristo! non sai ch'io'l mio furor maturo, Ma non l'obblio giammai? che piedestallo Mal fermo ha la tua sorte? E che in van dalStento t'invola impenetrabil muro? [lo Dio così parla; e ratto move a danno De' possenti le cure atre, e quel crudo Laniator de gli uman petti affanno. Bella Innocenza in tanto il braccio ignudo Sul vomer posa; e fra sè dice: ond' hanno Tal dolcezza le stille auree ch'io sudo ? VII. L'ESTRO. QUAL cagion, qual virtù, qual foco innato, Signore, è quel che la tua mente accende, Quando ogni core a i versi tuoi beato, Da i labbri tuoi meravigliando pende? È spirito ? È materia? È Dio che scende L'una e l'altro agitando oltre l'usato? Come Estro in te nasce; e come stende In noi sue forze imperioso e grato? Tul'arcano ch'io cerco esponi al giorno: E mentre il ver da le tue labbra espresso Splenda di grazie e di bellezze adorno, Crederò di veder lungo il Permesso, Fra il coro de le Muse accolte intorno, Parlar de le sue doti Apollo istesso. IL LAURO. APOLLO passeggiò Jer l'altro per la via; Appeso per insegna all'osteria. Allor lo Dio canoro Oh secolo oh costumi! Ch'io il farei diventar Marsia o Pitone! Udi questa bravata il buon Sileno Che di dentro giocando Co' suoi Fauni, e trincando Faceva il verno rio parer sereno. E barcollando, Con occhi ove ad ognora Mista col vin scoppietta l'allegría, E disse al Sol che bestemmiava ancora: O figlio di Latona, O di Cinzia fratello, Onde tanto rovello? Sai tu perché l'eterna Tua ghirlanda ora è fregio a la taverna? Non si trovando da pagar lo scotto, Faravvi divenir, se ben voi foste Più tondo assai che non è l'O di Giotto. Questa da voi lontano Le folgori terrà : E per voi Giove in vano Dal cielo tonerà. L'oste con quello alloro Pensando di cavarne un gran tesoro; Rise il maestro; e poi disse: mirate Or calano a la rete! Per vituperio de la Poesía. Silen volea più dir; ma non potè Febo tenersi più; E il Lauro strappò giù Dai crini; e disse: io non ti stimo un fico. E al colmo de la infamia oggi t' appresta. IN MORTE DEL BARBIERE CANZONE. O SEREGIA, O Sfregia mio, O dolce mio barbiere, O de le guance amor, delizia e cura, Poi che ti trasse a i regni oscuri e neri Vita lieta e sicura, Gli è ver, tu meni a casa di Plutone, Ove, benchè sii morto, Fai la barba ad Omero ed a Platone. Ma, lasso! qual conforto Sperar poss' io, se più sperar non posso Chi, come te, mi rada in fino all'osso? Qualor, passando, io miro Mi sento dall' ambascia venir meno; La bacio; e tento di sfogar la frega, Veggendo or fatto si deserto, io grido: 'Ve sono ora i trecconi, Che qui venien, come a lor dolce nido; E gli sgherri e i baroni, Che i sabbati partien con alti e spessi Segni del tuo valore, o Sfregia, impressi? Que' fortunati istanti, Tornanmi a mente, come fosser vivi. Tal quale io ti vedea rader coloro, Fanno del tetto i mici per la foia; Sotto al tuo ferro miagolar di gioia. Per la dolcezza i lumi ambo volgea; Una mattina intera Che avea per ben due secoli conteso Al sol sentirla; e tratti avea si fini, Si tosto, che tu provvido mettéi Mi vi acconciavo sopra, L'usò quel di, che si lavò le mane; Non avea visto mai laghi e fontane. Si tosto al collo intorno Che arnese non fu mai, più di quel, ghiot- Tutto spirava e di fuora e di drento, Da un lato era un po' rotto; E di quivi nel mezzo al mio diletto Dell' altre lodi tue salir la strada. A dir quasi m' impaccio, Che avria quel d'Esaù fatto parere Di color verde e rancia Poscia una spuma, che pareva gnocchi, Pigliavi; e a larga mano Le labbra m'infardavi e il naso e gli occhi. Ahi che piacer sovrano! Quasi, come a Ruggier, dicer mi tocca, Che spesso i' avea più d'un tuo dito in bocca. Le stagion rovesciare A te già non piaceva, Com' usan certe frasche a questa etate; Anzi il verno agghiadare Facevane il tuo ranno; e ne coceva, Ma poi ch'ambe impeciate Ov'era il pel di tutti e sette i Savi; Anzi un serraglio, a i tanti ivi dispersi Oh che dolcezza, quando |