E l'abitar questi odorati colli. Piaggia ch' io miro, ogni goder ch' io sento, XXIII. CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL' ASIA 1. Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi. Ancor non sei tu paga Di rïandare i sempiterni calli? Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli? Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Plusieurs d'entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell' Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff, «Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820», appresso il Journal des Savans 1826, septembre p. 518. Sorge in sul primo albore, Move la greggia oltre pel campo, e vede Poi stanco si riposa in su la sera: Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s' affretta. Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch' arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu vòlto Ov' ei precipitando, il tutto obblia. È la vita mortale. Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell' esser nato. Poi che crescendo viene, L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell' umano stato: Altro ufficio più grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole, Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perchè da noi si dura? È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Il patir nostro, il sospirar, che sia; E perir della terra, e venir meno Il perchè delle cose, e vedi il frutto Del tacito, infinito andar del tempo. Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera, A chi giovi l'ardore, e che procacci Il verno co' suoi ghiacci. Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand' io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina; Seguirmi viaggiando a mano a mano; A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono? Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so. Ma tu per certo, Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri, Che dell' esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors' altri; a me la vita è male. O greggia mia che posi, oh te beata, Non sol perchè d' affanno Ch' ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. E gran parte dell' anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggio sovra l'erbe, all' ombra, La mente; ed uno spron quasi mi punge E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell' agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s' io giaccio in riposo, il tedio assale 1? Forse s'avess' io l' ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all' altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, E funesto a chi nasce il dì natale. Il signor Rothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io godo pochi piaceri (godo ancor poco); nè mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè della noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perchè gli animali non s' annoino, e l'uomo si: la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologic. XXIV. LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA. Passata è la tempesta; Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; E chiaro nella valle il fiume appare. Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l' uscio; a prova Vien fuor la femminetta a côr dell' acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride E, dalla via corrente, odi lontano Si dolce, si gradita Quand' è, com' or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende? O torna all' opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d' affanno; Gioia vana, ch' è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudar le genti e palpitâr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. |