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Quando

uando nel 1311 Arrigo di Lussemburgo Im peratore Romano scese in Italia, Dante a sostenere e ad afforzare il Ghibellinismo, cui egli apparteneva già da più tempo, prese a scrivere la presente Operetta intorno la Monarchia. In essa si prefigge l'Autor di provare, 1.° che al ben essere dell'umana società e all'ottima disposizione del mondo è necessaria la Monarchia; 2.o che l'officio della Monarchia, o sia dell'Impero, appartenne ed appartiene di diritto al Popolo Romano ; 3.o che l'autorità del Monarca dipende immediatamente da Dio, e non da alcun suo Ministro o Vicario. Tanto omai note sono le gare, le quali sventuratamente in que'secoli fervevano fra il Sacerdozio e l'Impero, che nissuno farà per certo le meraviglie, vedendo come Dante consacri tutto il terzo libro di questa Operetta a provare che l'autorità dell'Impero non può da quella del Sacerdozio aver la sua origine. Ma come questa quistione, alla quale oggi non v'è chi più pensi, potrebbe per altro lato trarre alcuno in inganno (e già vel trasse di fatto), presentando a prima vista il sospetto, che Dante limiti la potestà del sommo Pontefice alla spirituale soltanto, nè conceda che questi possa ad un tempo essere e Sacerdote e Sovrano, così io credo opportuno il dire intorno a ciò due parole.

Dico adunque, che nel Libro di Dante non è espres. sione, la quale pienamente chiarifichi quel sospetto e l' avveri: che per l'opposito vi se ne rinvengono alcune, le quali alla contraria sentenza porgono tutto l'appoggio. Imperciocchè dopo aver egli mostrato, come l'Impero esisteva, ed in tutta la sua forza si stava, innanzi che la Chiesa di Cristo si fosse; e come da ciò s'appalesava l'assurdo degli Ecclesiastici, poichè, vere essendo le loro pretese, l'effetto avrebbe precesso alla causa, queste parole soggiunge: Se Costantino non avesse

avuto autorità, quelle cose dell'Impero che dep alla Chiesa, non avrebbe potuto di ragione depu re... Ma il dire che la Chiesa così usi male patrimonio a se deputato, è molto inconveniente (F 185). Per queste espressioni del ghibellino scritto le quali dicono chiaramente, la Chiesa tenersi di ritto tutto quanto si tiene, parmi restare affatto eso so il sospetto, che l'argomento del Libro può a pri vista indurre in alcuno. Non intendeva adunque l'A ghieri che nel Pontefice non potessero unirsi la s rituale e la secolare potestà per modo che egli si fo di diritto Sovrano ne' proprj Stati, ma sibbene esc deva l'autorità universale sopra gli Stati altrui. E teneva secondo l'opinione vera e cattolica, e secon il detto di S. Paolo, omnis potestas a Deo venit, ogni Principe temporale abbia, in quanto all' esser Principe, una potestà immediata da Dio, non medi per il Pontefice. Anzi, mentre Dante conchiude la co battuta tesi, protesta, che questa quistione non si de così strettamente intendere, che l'Imperatore Rom no non sia al Pontefice in alcuna cosa sogget conciossiache questa mortale felicità alla felic immortale sia ordinata. Cesare adunque (egli esc ma) quella reverenza usi a Pietro, la quale il prin genito figliuolo usare verso il padre debbe, acciocc egli illustrato dalla luce della paterna grazia, c più virtute il circolo della terra illumini (pag. 19

Venendo ora a toccare alcun poco l' altra quistic intorno la Monarchia, dico che per essa intende l'A ghieri la Monarchia universale, poichè, com' egli s' sprime (pag. 171), nell' unità dell' universale Mon chia consiste l'Imperio. La sovranità imperiale, de vata dal principio d'unità che regola l'universo, quel tipo sul quale, secondo l'autore, dovea modella il sistema civile e il legame delle diverse genti d'I lia, anzi di tutte quante le nazioni del mondo. N intendeva egli già d'accordare al Supremo Imperar un assoluto e illimitato potere; ma voleva che que

fosse siccome capo e moderatore di tanti governi confederati, i quali da per se colle proprie leggi si reggessero, al tempo stesso che dipendevan da lui, quasi centro e anima vivificante di molte membra, destinate a fare, per la general forza ed unione; un solo vastissimo corpo. E' da considerarsi (egli s'esprime, pag. 47) che quando si dice, che per uno supremo Principe il genere umano si può governare, non s'intende che qualunque minimo giudicio di qualunque villa, possa da quell' uno sanza mezzo disporsi, conciossiachè le leggi municipali alle volte manchino è abbiano bisogno di direzione: imperocchè le nazioni, regni e città hanno tra loro certe proprietà, per le quali bisogna con differenti leggi governare... chè altrimenti conviene regolare gli Sciti, altrimenti i Garamanți. Da questo squarcio, e da altri pure che qui non riporto, si vede chiaro, che egli non voleva un assoluto Padrone, ma un Magistrato supremo, che si conformasse alle leggi delle varie nazioni, dappoichè se le leggi non son dirette all' utile de' Governati, non han di leggi che il nome, Si ad utilitatem eorum qui sub lege, leges directae non sunt; leges nomine solo sunt, re autem leges esse non possunt (pag. 78.)

E quantunque i Ghibellini sembrino in apparenza meno italiani de' Guelfi ( poichè, come molti dicono, questi stavano per un Principe nazionale, qual era il Papa, e quelli per uno straniero qual era l'Imperatore), pure la cosa era in sostanza il contrario. E questo apparirà per due ragioni, delle quali la prima fia la seguente. Il Re de' Romani, ch' assuméva quindi la dignità d'Imperatore, faceasi nella guisa stessa che il Papa, per elezione. E mentre la scelta, per antica consuetudine, andava a cadere sopra Personaggio di famiglia alemanna e cattolico, pure nè nella Bolla d'Oro, ne negli Statuti che ad essa precessero, io rinvengo che ne dovesse venir escluso quel Principe, che tenesse sede e dominio in Italia; anzi noi veggiamo che nei

secolo XIII fu assunto all'Impero Federigo II della Casa di Svevia nel mentre ch' egli era Re di Sicilia, ed in Sicilia ed in Puglia si stava. Oltredichè, dentro a' confini d'Italia e meglio in Roma, dovendo a giudicio di Dante (Purg. VI. ec.) tener la sua stanza e la propria sua sede l'eletto Monarca, poteva dunque e dovea per più lati considerarsi siccome Italiano, ancor ch' ei nol fosse o per famiglia o per nascita. È chiaro dunque che i Ghibellini non teneano l'Imperatore e Re de' Romani per istraniero. Che se tale egli fosse invero da dirsi, non dovrebbe dirsi pur tale il Pontefice, cui i Guelfi come a Principe nazionale s'appoggiavano?

La seconda poi, ch'è da valutarsi forse più della prima ragione, consiste nel vedere che scopo de' Ghibellini si era quello di riunire tutte in un corpo le discordi membra d'Italia, e farle, quasi raggi, nel comun centro d'una moderatrice suprema Potestà convergere. Vedea Dante tornar vana la speranza che ogni singolo italiano municipio mantener potesse la propria libertà e indipendenza senza convenire in un Capo, cui afforzassero l'autorità delle leggi e la potenza dell' armi. Ond'è ch' ei ripeteva quella sentenza de' sacri Libri, che ogni regno in se diviso sarà desolato; ed amantissimo, siccome egli era, delle antiche glorie italiane, e della grandezza del nome romano, ei considerava che soltanto pel mezzo d' una general forza ed autorità poteva l'Italia dalle interne contese e dalle straniere invasioni restarsi sicura, e recuperare l'antico imperio sopra tutte le genti. Coll' esempio allora presente non lasciava di persuadere, che la divisione in tanti piccoli stati, senza una Potestà a tutti superiore, era la causa che commettea discordia tra le città, e le urtava fra loro in perpetua guerra, le proprie forze invan consumando. Sicchè non volendo l'Italia soffrire un'alta potenza regolatrice verrebbe in breve a cadere sotto il dominio straniero; e così a nazioni un tempo già a lei soggette resterebbe sottoposta quella, che pel corso di mille anni era stata la signora del mondo.

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